«Ho più amici gay io che forse tu e li tratto come tratto qualsiasi altra persona normodotata (…) Ho più amici gay che normali». Questa è stata la linea di difesa assunta dalla Consigliera di Fratelli D’Italia, Felicia Grazia Scaffidi, durante il Consiglio comunale tenutosi a Lissone (provincia di Monza e Brianza) il 22 giugno scorso, per replicare ad un collega che l’aveva accusata di omofobia. 

Bisogna proprio dire: quando la toppa è peggio del buco. Gli eterosessuali sarebbero normodotati o normali (come prontamente, poi, la consigliera ha corretto). Il che sottintende che i gay non lo siano. «Da vicino nessuno è normale», diceva lo psichiatra Franco Basaglia. E come dargli torto.

Tutto ciò a pochi giorni dalla giornata del Pride, che anche a Cagliari ha visto un’ampia partecipazione con circa ventimila persone scese a festeggiare nelle strade. Ma quella dell’uguaglianza, di fatto e non solo di nome, è ancora lunga.
Le parole devono essere scelte con cura se si ha come obiettivo l’inclusività, poiché il linguaggio incide sulle rappresentazioni mentali. 

A questo proposito le Nazioni Unite hanno redatto delle direttive per ognuna delle sei lingue ufficiali (arabo, cinese, francese, inglese, russo e spagnolo) proprio finalizzate a favorire l’uso di un linguaggio inclusivo rispetto al genere.
 
Tali direttive invitano ad adottare tre strategie generali:
 
- evitare espressioni discriminatorie. Ad esempio, evitare l’uso di “signorina”, o espressioni stereotipiche (meglio “il personale sanitario” che “medici e infermiere”);
 
- quando necessario, enfatizzare il genere tramite genere doppio anziché usare il maschile esteso. Ad esempio: “i bambini e le bambine” (anziché “i bambini”); “il/le candidati/e” anziché “i candidati”;
 
- non enfatizzare il genere quando non è necessario. Ad esempio: “rappresentanti” anziché “alcuni rappresentanti”; “il personale” anziché “gli impiegati”.

Il problema sorge per le persone non binarie, che non si identificano né nel maschile né nel femminile. In italiano esistono molte proposte, ma alcune, pur utilizzabili per iscritto, non sono pronunciabili: ad esempio l’asterisco o la chiocciola sia al singolare che al plurale: «È andat* via», «Ciao a tutt*» oppure «È andat@ via», «Ciao a tutt@».
  
La proposta che si sta diffondendo di più è quella dello schwa (ǝ), simbolo fonetico che indica una vocale centrale non presente in italiano, ma che troviamo in molte lingue locali italoromanze (ad esempio napoletano e piemontese), così come in inglese, francese, tedesco, cinese, russo e altre.

Bisogna però ricordare, come scrive l’Accademia della Crusca, che «sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale» e che, quindi, la questione non è di facile soluzione. Una lingua più inclusiva sceglie anche di declinare al femminile i mestieri che prima erano svolti solo da uomini. Che parole come medica, sindaca, avvocata siano cacofoniche, come qualcuno sostiene per evitarne l’uso, è solo dovuto al fatto che mai finora erano state adoperate: era successo lo stesso nel passato con dottoressa e professoressa, che ora utilizziamo comunemente.

Talvolta sono le stesse donne a voler declinata al maschile la loro professione: è il caso di Beatrice Venezi, che vuole essere chiamata direttore d’orchestra e non direttrice. Anche qui l’Accademia della Crusca, pur invitando ad utilizzare il femminile oltre al maschile per le professioni svolte in ambienti che tradizionalmente erano maschili, ha affermato che ciò non può essere imposto, anche se la giustificazione della Venezi, per cui lei riveste un ruolo che va espresso al maschile, non trova riscontro nella grammatica.

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