Si chiama "Overshoot Day" ed è il giorno in cui terminano le risorse naturali che la Terra mette a disposizione ogni anno. Il cibo, il suolo, le risorse energetiche: tutto quello che il nostro pianeta può produrre nel corso dei 12 mesi. Da decenni quella data arriva con sempre maggiore anticipo. Da fine dicembre del 1969 (l'ultimo anno chiuso con un bilancio "in parità") a novembre, ottobre, settembre degli anni successivi. In questo 2020 il traguardo è stato tagliato il 22 agosto, un risultato migliore rispetto al 29 luglio del 2019 e al primo agosto del 2018, ma queste tre settimane sono state guadagnate solo per l'esplosione della pandemia da Covid-19, che ha obbligato milioni di persone a ridurre gli spostamenti e i consumi. Di questo passo, con l'incremento del numero di esseri umani, il punto di non ritorno non è distante. Già oggi, visti i numeri, ci sarebbe bisogno di 1,75 Terre per consumare solo quanto prodotto. I tre quarti in più rispetto alle possibilità attuali. Quasi un secondo pianeta.

A una simile andatura l'umanità rischia di scomparire ben prima di quanto preveda la naturale evoluzione del nostro sistema solare (tra circa 5 miliardi di anni il sole diventerà una stella rossa gigante la cui espansione ingloberà il nostro mondo, sul quale a quell'epoca già da milioni di anni le temperature troppo elevate avranno cancellato ogni forma di vita). Sempre che, tra l'altro, non provveda in prima persona e in tempi molto più brevi - anche solo qualche centinaio di anni - la nostra stessa specie utilizzando armi di distruzione di massa o, appunto, consumando sempre più voracemente ogni risorsa vitale sino ad azzerarla del tutto. Per prima l'acqua.

Il problema continua a essere affrontato da pochi, quasi si trattasse di allarmismo inutile o non attuale, tanto distante nel tempo da riguardare eventualmente chi verrà dopo di noi. Nonostante vi siano chiari segnali, negativi, di quanto sta accadendo: anidride carbonica in aumento, crescita dei livelli di inquinamento, occupazione ed erosione del suolo, innalzamento dei mari, perdita della biodiversità, siccità, incendi, carestie, uragani, alluvioni e grandinate in Italia anche in piena stagione calda, temperature impazzite, deforestazione e diffusione di virus importati dalle specie animali private del proprio ambiente naturale con una conseguente diffusione di nuove malattie.

Come reagire? Qualcuno suggerisce di dimezzare il consumo di carne, che permetterebbe di spostare di 15 giorni in avanti la data dell'Overshoot day. Pochini. Uno studio di due anni fa ha calcolato che se tutti gli abitanti della terra assumessero un comportamento responsabile ogni 12 mesi si guadagnerebbero cinque giorni ed entro il 2050 il sistema tornerebbe in equilibrio. Ma ci sono due domande: quali sono questi comportamenti responsabili? Ed è ipotizzabile che oltre 7 miliardi di persone - alcune istruite e scolarizzate, la grande maggioranza analfabeta e poco informata (quasi sempre ridotta alla miseria non per sua colpa) - seguano eventuali indicazioni di quel tipo? Del resto la responsabilità principale della situazione è proprio dei Paesi più industrializzati: basti pensare che gli Usa e il Canada consumano le risorse di un anno già a marzo, Singapore e Svezia ad aprile, l'Italia a maggio, il Lussemburgo a febbraio, la Thailandia ad agosto. Il Vietnam invece taglia il traguardo a ottobre, l'Uruguay a novembre, l'Ecuador e l'Indonesia a dicembre. Differenze sostanziali.

E allora? Forse solo una catastrofe potrebbe far cambiare rotta ai governi, soprattutto quelli negazionisti (in primis Brasile e Usa), ma nulla vieta di pensare che poi tutto potrebbe tornare come prima. Magari peggio. La memoria è corta, si dimentica facilmente.

L'ipotesi estrema sarebbe trovare un "pianeta B". Un'altra Terra sulla quale fondare colonie e ripartire. Con una piccola controindicazione: dove? Non nel sistema solare, che non ha corpi celesti adatti allo scopo. E neanche oltre i suoi confini, perché troppo distanti da varcare per le attuali capacità tecnologiche umane. L'unico che potrebbe avere caratteristiche adeguate, e che forse un tempo le aveva realmente, è Marte. Dista mediamente 70 milioni di chilometri da noi, il più vicino alla Terra assieme a Venere, ed è ai limiti della "fascia abitabile": quell'area entro la quale la lontananza dal sole consente l'esistenza di temperature non troppo elevate né troppo basse tali da non impedire lo sviluppo di una qualche forma di vita, anche grazie alla possibile esistenza di acqua in forma liquida. Ma Venere ha un'atmosfera piena di anidride carbonica che crea un effetto serra tale da rendere il pianeta una sorta di inferno inospitale; Marte è una palla rossa abbastanza fredda, priva di campo magnetico e con un'atmosfera rarefatta densa di Co2. Un tempo forse ospitava la vita, in quali forme non si sa; poi qualcosa, ancora allo studio, ne ha cambiato radicalmente le condizioni. Esiste acqua sotto forma di ghiaccio ai due poli. Ma pensare di colonizzarlo, nonostante siano allo studio alcune missioni umane (il presidente Donald Trump in piena campagna elettorale poche settimane fa ha giurato che gli Stati Uniti vi sbarcheranno presto: dichiarazione che ha ricordato quella del predecessore J. F. Kennedy negli anni Sessanta per la Luna), appare ancora un'utopia. Per distanza, condizioni ambientali, difficoltà comunicative, disponibilità a fare parte delle missioni.

Forse sarebbe più semplice e meno oneroso salvare la Terra. E' una volontà politica, più che altro. Ed è forse proprio questo il motivo che rende improbabile mettere tutti intorno a un tavolo per trovare un accordo.
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