"Sono venuta in quest'Isola meravigliosa nel 1966, per la prima volta. Dovevo girare dei documentari per l'Anas, sulla Carlo Felice. Da subito ho avuto una passione travolgente, mi ha spinto a ritornarci con costanza. Mi è sempre piaciuto raccontare questa terra così ricca, così complessa. Un innamoramento, altro che Maldive". Parole di Cecilia Mangini, signora italiana del documentario, testimone della storia del Novecento, molto legata alla Sardegna. Se n'è andata a Roma all'età di 93 anni il 21 gennaio, giorno che ha coinciso con il centenario della nascita del Partito comunista italiano. Una casualità non senza significato perché l'unica testimonianza filmata del congresso di Livorno del 1921, luogo di nascita del Pci, è rappresentata da trenta minuti di repertorio ritrovati da lei durante la lavorazione di "Allarmi siam fascisti!" e rimasti nel cassetto per decenni. Teneva sempre con sé macchina fotografica e cinepresa, strumenti irrinunciabili di un mestiere che per lei era uno stile di vita: ricerca e conoscenza come missione, sostenuta dalla passione e da un grande talento.

"Il documentario deve sempre riuscire a scoprire qualcosa di nascosto. Qualcosa che serve a tutti, indistintamente. Il cinema del reale aiuta a capire in che modo si muove il mondo", ripeteva due anni fa a Nuoro quando nel gennaio 2019 era stata docente d'eccezione in una tre giorni organizzata dall'Istituto superiore regionale etnografico. "Filmare una persona, un luogo" era il titolo dello workshop, un laboratorio condotto assieme al regista Paolo Pisanelli per cogliere immagini e suoni dei quartieri, a Nuoro e dintorni. Lei, prima donna nel dopoguerra ad aver girato documentari in Italia, sceneggiatrice di lungometraggi e di oltre 40 cortometraggi, fotografa, nonostante l'età, non smetteva di confrontarsi con i giovani e di guardare il mondo con occhi affilati e penetranti, capaci di cogliere la complessità del presente e di esprimere intelligenza e grande curiosità. "Il reale è qualcosa che scorre sotterraneo. Permette alle persone di capire, di porsi delle domande. Di cambiare opinione, talvolta", spiegava. "Il reale porta sempre a ragionare. Oggi la gente si fa troppo spesso incantare da convinzioni errate. Non scava, non ragiona: non cerca di comprendere davvero quale sia la realtà dei fatti". Aveva raccontato di tutto: dalle saline di Lipari ai ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, dai canti funebri salentini a personaggi illustri, come Curzio Malaparte, colto nel letto di morte, dalle lotte operaie alla rivoluzione vietnamita. In Sardegna aveva girato "Ring Sardegna", seconda parte di "Domani vincerò", pellicola dedicata al pugilato inteso come possibilità di riscatto sociale dei giovani. Un viaggio nella Barbagia, tra i pastori che si allenano correndo per chilometri dietro le pecore. Qui ha girato anche il suo ultimo lavoro, realizzato con Paolo Pisanelli. Si intitola "Grazia Deledda, la rivoluzionaria", documentario voluto dall'Istituto superiore regionale etnografico che lo ha prodotto. Un omaggio alla scrittrice nuorese premio Nobel per la letteratura nel 1926 che sarà possibile vedere a partire dalla prossima primavera, in coincidenza con i 150 anni dalla nascita della Deledda. Ma è anche un regalo dell'Isre alla pioniera del documentario in Italia con la quale ha avuto una intensa collaborazione. Due donne e altrettanti spiriti ribelli. "Ho letto Grazia Deledda da giovanissima e ne ho subito apprezzato il coraggio, la sua voglia di osare", commentava la Mangini. "Grazia Deledda, la rivoluzionaria" è un viaggio cinematografico per scoprire attraverso documenti e manoscritti inediti il mondo della scrittrice. Prima che girasse il film, aveva presentato all'Isre "Isole", resoconto visivo del suo primo reportage di viaggio, nel 1952, a Lipari e Panarea: tanti scatti inediti donati dall'artista per le collezioni dell'Istituto etnografico. Qui aveva anche presentato "Le Vietnam sera libre", opera realizzata con Paolo Pisanelli. Il titolo era stato scelto da lei e dal marito cineasta Lino Del Fra nel 1965 per un film sulla difficile vita del Vietnam del Nord alla ricerca dell'indipendenza. La coppia trascorse lì tre mesi intensi, pieni di esplorazioni e di incontri con la popolazione locale. Poi fu rimpatriata, assieme a tutti gli stranieri presenti ad Hanoi. Il film allora non vide la luce. Molti anni dopo lei ritrovò una scatola piena di negativi fotografici che con la collaborazione di Paolo Pisanelli diventarono un film capolavoro approdato alla Festa del cinema di Roma nel 2018.

"Sono le fotografie - diceva - che mi ricordano le cose, perché io sto perdendo la memoria. Avevo dimenticato queste due scatole. Le ho prese, le ho aperte, ho cominciato a guardare i provini e c'erano fatti e persone "svaniti", che mi sono ritornati. La fotografia recupera il tempo, lo spazio, le sensazioni. Recupera tutto".
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