«Il perseguimento delle condotte criminose, anche se efferate e ignominiose quali quelle oggetto di imputazione, deve passare, in uno Stato di diritto, attraverso il rispetto delle regole del giusto processo regolato dalla legge, che si svolga nel pieno ed effettivo contraddittorio tra le parti».
La Corte di Cassazione ribadisce un principio fondamentale e lo fa in una delle vicende più terribili, quella della tortura a morte del ricercatore italiano Giulio Regeni in Egitto, nel momento in cui è chiamata a decidere sul ricorso contro la decisione di sospendere il processo contro gli egiziani accusati di aver ucciso il giovane italiano.

Nella richiesta di annullamento dell’ordinanza che aveva fermato il processo si sosteneva di essere “in presenza di indicatori certi di volontaria sottrazione dell'imputato alla conoscenza del procedimento o di suoi atti e dell'accertata impossibilità di raggiungere l'interessato con gli ordinari strumenti di notifica”.

Prima di respingere il ricorso la Cassazione ha ripercorso i fatti: il 20 gennaio 2021 il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma chiedeva il rinvio a giudizio di Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, cittadini egiziani dichiarati irreperibili. In concorso tra loro e con altri soggetti allo stato non identificati, a seguito della denuncia presentata negli uffici della National Security da Said Mohamed Abdallah, rappresentante del sindacato indipendente dei venditori ambulanti de II Cairo Ovest, dopo avere osservato e controllato, direttamente e indirettamente, dall'autunno 2015 alla sera del 25 gennaio 2016 Giulio Regeni, dottorando italiano della Cambridge University, abusando delle loro qualità di pubblici ufficiali egiziani lo bloccavano all'interno della metropolitana del Cairo e, dopo averlo condotto contro la sua volontà e al di fuori da ogni attività istituzionale, dapprima presso il Commissariato di Dokki e successivamente presso un edificio a Lazougly, lo privavano della libertà personale.

Per il solo Magdi Ibrahim Abdelal Sharif l’accusa riguardava anche le torture a morte: in concorso con soggetti allo stato non identificati, per motivi abietti e futili e abusando dei loro poteri, con crudeltà, cagionava a Giulio Regeni lesioni che gli avrebbero impedito di attendere alle ordinarie occupazioni per oltre 40 giorni nonché comportato l'indebolimento e la perdita permanente di più organi, seviziandolo, con acute sofferenze fisiche, in più occasioni ed a distanza di più giorni.

Il 25 maggio 2021 il gup di Roma,  verificata la regolarità delle notifiche, disponeva di procedere in assenza degli imputati, dichiarati irreperibili. Quindi procedeva col rinvio a giudizio degli imputati dinanzi alla Corte d’assise di Roma per l'udienza del 14 ottobre 2021. Il giudice riteneva desumibile con assoluta certezza da specifiche illustrate evidenze che gli imputati, agenti della National Security egiziana, avessero acquisito piena consapevolezza dell'esistenza del procedimento a loro carico per il sequestro e l'uccisione di Giulio Regeni, dei suoi sviluppi terminativi e della data dell'udienza preliminare, già fissata per il 29 aprile 2021 e rinviata con invito alle parti di interloquire in merito alla verifica della regolare costituzione delle parti. Dunque  secondo  il giudice si erano volontariamente sottratti alla conoscenza formale degli atti assunti nel corso del procedimento, non rendendo possibili le relative notifiche.

La  Corte d’assise in apertura di udienza aveva però dichiarato nulla la declaratoria di assenza e, di conseguenza, anche il decreto che disponeva il giudizio che era dunque ritornato davanti al gup. Quest’ultimo l’11 aprile 2022, dopo aver preso atto della impossibilità di effettuare le notifiche personalmente agli imputati, aveva sospeso il procedimento ordinando nel contempo nuove ricerche.

Contro questa decisione è stato presentato ricorso per Cassazione e la Suprema Corte lo ha respinto: i giudici «hanno fatto buon governo degli insegnamenti delle Sezioni Unite. Hanno infatti correttamente escluso che, a fondamento della pretesa effettiva conoscenza da parte degli imputati del contenuto dell’accusa e della vocatio in iudicium possano essere addotti gli elementi valorizzati dal pubblico ministero ricorrente nel corso del procedimento, e ancora dinanzi a questa Corte».

E allora si deve ritenere «immune da vizi logici o giuridici la valutazione, giustificata in modo assai ampio e articolato dalla Corte d’assise, secondo la quale le qualifiche soggettive degli imputati all’interno delle forze di polizia o degli apparati di sicurezza egiziani, la partecipazione di alcuni di essi al team egiziano incaricato di collaborare con gli inquirenti italiani nel caso Regeni, il fatto che alcuni di loro siano stati in quella sede sentiti quali persone informate dei fatti circa le indagini svolte in Egitto, e la rilevanza mediatica, anche internazionale, del processo italiano non sono concludenti al fine di ritenere raggiunta la certezza della conoscenza da parte degli imputati del processo a loro carico».

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