La data riportata in calce è quella del 23 dicembre dell’anno scorso ma chissà perchè è stata presentata alla vigilia del primo aprile. Si chiama Disposizioni per la tutela e la promozione della lingua italiana e istituzione di un comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana, ed è tutto tranne che uno scherzo: primo firmatario Fabio Rampelli, vice presidente della Camera dei deputati (Fratelli d’Italia), questa proposta di legge impone l’uso della lingua italiana in tutti gli atti pubblici, nelle scuole, nelle università, nella politica.

Non solo: “Chiunque ricopre cariche nelle istituzioni è tenuto alla conoscenza e alla padronanza scritta e orale della lingua italiana. È ammesso l’uso di sigle e denominazioni in lingua straniera in assenza di un corrispettivo”.
Per i disobbedienti, o i poco preparati, si prevedono sanzioni dai cinquemila ai centomila euro.

Per capire che cosa abbia mosso i proponenti basta leggere la relazione illustrativa del testo: “La lingua italiana rappresenta l’identità della nostra Nazione, il nostro elemento unificante e il nostro patrimonio immateriale più antico che deve essere opportunamente tutelato e valorizzato. La lingua e la letteratura italiane che occupano il quarto posto tra quelle più studiate al mondo, costituiscono uno straordinario apporto dato dall’Italia alla cultura mondiale: di questo nostro patrimonio, che abbiamo ricevuto in eredità dal nostro passato e dalla nostra storia, dobbiamo essere consapevoli e dobbiamo in particolare imparare a considerarlo un bene comune a tutti noi cittadini italiani che abbiamo di conseguenza il compito di custodirlo e di farlo conoscere”.

E fin qui niente da dire.  Sono i passaggi successivi a sollevare parecchi dubbi.

“Sono anni che studiosi, esperti e istituzioni come l’Accademia della Crusca denunciano il progressivo scadimento del valore attribuito alla nostra lingua e segnalano l’importanza di una maggiore tutela dell’italiano e del suo utilizzo nella terminologia amministrativa da parte dello Stato, delle sue articolazioni territoriali e degli strumenti di diffusione culturale pubblici e a partecipazione pubblica, come la Rai”. Basta quindi gridare gol o parlare di basket. Rete e pallacanestro sono le parole giuste. I telecronisti ci pensino. Anche perché se non si parla italiano si rischia di far morire la nostra lingua (non è chiaro se le multe sono anche per loro).

“L’uso sempre più frequente di termini in inglese o derivanti dal linguaggio digitale è diventato una prassi comunicativa che, lungi dall’arricchire il nostro patrimonio linguistico, lo immiserisce e lo mortifica. Negli ultimi anni le parole prese a prestito dal mondo anglosassone sono diventate sempre più numerose, tanto da aver portato alla creazione del termine itanglese per definire l’intrusione di vocaboli inglesi nella nostra lingua che, spesso, rasenta l’abuso. Secondo le ultime stime dal 2000 a oggi il numero di parole inglesi confluite nella lingua italiana scritta è aumentato del 773 %: quasi 9.000 sono gli anglicismi nel dizionario Treccani su circa 800.000 parole.  Da un confronto tra gli anglicismi nel Devoto Oli del 1990 e quello del 2022 si è passati da 1.600 a 4.000, il che porta a una media di 74 all’anno”.

Tutto questo per i proponenti non è scambio ma degrado, prodotto fondamentalmente dai seguenti fattori: “l’intrusione di gerghi dialettali appartenenti al cinema e alla televisione; l’uso indiscriminato dei neologismi provenienti dal linguaggio burocratico e scientifico; l’infiltrazione eccessiva di parole mutuate dall’inglese che negli ultimi decenni ha raggiunto livelli di guardia”.

Di fatto si ripercorre come cambia il linguaggio, da sempre, con l’incontro delle varie culture, però tutto questo viene visto negativamente.

“Questi foresterismi ossessivi rischiano nel lungo termine di portare a un collasso dell’uso della lingua italiana fino alla sua progressiva scomparsa e, in particolare, l’uso e l’abuso di termini stranieri rischiano di penalizzare l’accessibilità alla democrazia partecipata”.

L’imputata principale è la lingua inglese: “Da tempo la globalizzazione e il monolinguismo stereotipato che conducono all’inglese rappresentano un pericolo per le lingue locali. In Francia e in Spagna lo hanno capito e hanno adottato provvedimenti, in Italia no. In Francia si è reso obbligatorio nel 1994 l’uso del francese nelle pubblicazioni del governo, nelle pubblicità, nei luoghi di lavoro, in ogni tipologia di contratto, nei servizi, nell’insegnamento nelle scuole statali e negli scambi commerciali; ogni cartello pubblicitario con uno slogan in inglese contiene per legge la traduzione francese; è la stessa Costituzione a sancire la difesa del francese quale lingua della Repubblica e a riconoscere al cittadino il diritto a esprimersi e a ricevere in francese ogni informazione”.

Dunque, dalle nostre parti non si è mai fatto nulla per la lingua italiana, “paradossalmente più tutelata in Svizzera che da noi (…). In Italia non esiste una politica linguistica, anzi il linguaggio della politica si è anglicizzato introducendo le parole straniere nelle leggi, nelle istituzioni e nel cuore dello Stato. Oggi il plurilinguismo europeo è un vero valore da salvaguardare soprattutto a causa del dominio internazionale della lingua inglese, ancora più negativo e paradossale poiché con la Brexit è uscita dalla Ue proprio la nazione da cui quella lingua ha avuto origine (…). Non è solo una questione di moda, perché le mode passano, ma l’anglomania si riflette nelle scelte di istituzioni come la scuola e l’università con ripercussioni sull’intera società”.

Ed ecco che, “in un’ottica di salvaguardia nazionale e di difesa identitaria diventa quanto mai prioritaria la conservazione della lingua italiana. Non è più ammissibile che si utilizzino termini stranieri la cui corrispondenza italiana esiste ed è pienamente esaustiva”.

Peccato che nella relazione illustrativa ci siano due parole, inglesi, quando si dice il caso – slogan e Brexit - che neanche i proponenti sono riusciti a evitare. A quanto ammonta la multa?

© Riproduzione riservata