Il rito dei Grandi elettori e l’incognita degli Stati “swing”
Parte la macchina elettorale che decreterà la vittoria tra Kamala Harris e Donald TrumpKamala Harris e Donald Trump
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Per chi guarda dall’Italia non è semplice comprendere il meccanismo che in queste ore sta portando all’elezione del presidente degli Stati Uniti d’America. È differente il sistema elettorale, è differente il percorso che dall’altra parte dell’Oceano porta alla scelta della carica politico-istituzionale più importante del pianeta. Gli scenari partono da presupposti diversi: l’Italia è una repubblica parlamentare in cui il presidente ha un ruolo rappresentativo da garante della Costituzione e viene eletto dai due rami del Parlamento, quindi non direttamente dai cittadini. In America la repubblica è di tipo presidenziale con un capo dello Stato che è anche capo del Governo, quindi unisce al ruolo rappresentativo quello esecutivo (nominando direttamente alcuni ministri). Viene scelto dai cittadini, anche se in realtà esiste la mediazione dei cosiddetti “Grandi elettori” legati alla registrazione dei voti nei singoli (cinquanta) Stati americani. Saranno proprio questi “Graet voters”, in base alle preferenze in ognuno dei territori confederati, a dare il risultato definitivo alle elezioni americane, fino alla nomina del 47esimo presidente della storia della repubblica.
Le regole del voto
Anche le modalità di voto sono diverse da quelle che conosciamo in Italia. Innanzitutto il “november 5th” fissato per questa tornata elettorale (in base all’antica regola del “primo martedì dopo il primo lunedì di novembre”) è un election day solo teorico, perché in realtà serve a sancire la fine delle operazioni di voto: nella maggior parte degli Stati (ognuno ha regole diverse) è possibile esprimere la propria preferenza per corrispondenza, e milioni di americani l’hanno già fatto nelle ultime settimane. I seggi si chiudono in ore diverse, anche per via dei differenti fusi orari esistenti da una costa all’altra. I primi a far calare il sipario, a mezzanotte (tra martedì e mercoledì, ora italiana), sono Indiana e Kentucky, mentre il sigillo finale arriverà dall’Alaska alle sei del mattino (sempre ora di Roma).
La tradizionale sfida a due
I due “Major Party” si contenderanno la presidenza: da una parte il fronte democratico di Kamala Harry, dall’altra quello repubblicano di Donald Trump, secondo i canoni di un bipartitismo superconsolidato che affonda le sue radici nella metà dell’Ottocento. In ogni tornata elettorale non mancano però altre candidature: stavolta ci sono le proposte indipendenti della testimonial dei Verdi Jill Stein da Chicago, quella del professore di teologia Cornel West, e poi il poliziotto-economista Chase Oliver, espressione del Libertarian Party.
Spoglio e Grandi elettori
Dopo la chiusura dei seggi comincia spoglio che porta ai risultati nei singoli collegi di ogni Stato, dove prendono forma i Grandi elettori, quelli che poi determinano l’elezione del presidente. Non esiste la logica del voto universale senza steccati, dove vince vince chi prende più voti in tutto il Paese (nel 2016 Hillary Clinton conquistò quasi tre milioni di preferenze complessive più di Trump, ma non fu sufficiente), in realtà si attiva la ripartizione dei voti Stato per Stato. Uno scenario frammentato, quindi, dove i conteggi strettamente democratico-proporzionali devono equilibrarsi con la componente federalista degli Stati: i Grandi elettori assicurano complessivamente 538 voti, numero non casuale che rappresenta la proiezione fedele dei numeri della composizione del Parlamento americano. C’è lo stesso schema. Ogni Stato è rappresentato in base alla popolazione come prevedono le ripartizioni per il Congresso, così come si procede a un’assegnazione lineare nel caso del Senato: 2 delegati per ogni Stato confederato, a prescindere dalla popolazione e dalle dimensioni del territorio. In questo modo viene garantita una rappresentatività minima a tutti i confederati. Ma questa logica regala poteri differenti ai cittadini dei diversi Stati. Per fare un esempio pratico, la California, lo Stato più grande con i suoi 39,5 milioni di abitanti, ha 54 delegati (uno ogni 732mila residenti), mentre il Wyoming, che ha una popolazione di appena 577mila persone, di delegati ne ha 3, uno ogni 192mila abitanti. Pertanto con un peso specifico più alto rispetto al colosso della West Coast.
Verso il risultato finale
Impianto federalista, dunque che alla fine dice: vince le elezioni presidenziali chi raccoglie almeno 270 preferenze dai “Great voters”. Lo spoglio è veloce perché in quasi tutti gli Stati c’è il maggioritario secco (solo nei piccoli Nebraska e Maine si utilizza il sistema proporzionale) col principio “the winner takes all”, il vincitore prende tutto: se per esempio a New York prevale Kamala Harris, entrano automaticamente nel pacchetto dei Grandi elettori i 28 voti assegnati alla Grande mela (che andranno interamente alla candidata democratica), così come in caso di vittoria in Florida, Donald Trump potrebbe contare su tutti i 30 voti assicurati allo Stato sudorientale.
Gli Stati swing
La tradizione e i pronostici assegnano già a priori la vittoria all’Asinello (democratico) o all’Elefantino (repubblicano) in gran parte degli Stati, che però non bastano per fare la differenza e arrivare alla soglia determinante dei 270 voti. Ed è per questo che entrano in scena in queste ore gli “Swing States”, i luoghi in cui regna l’incertezza sino all’ultimo minuto. Secondo gli osservatori sono in bilico sette territori: Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, North Carolina, Pennsylvania e Wisconsin. In ballo ci sono ben 93 voti. Ed è qui che si accenderanno i riflettori di tutto il mondo per capire chi potrà davvero varcare le soglie della Casa Bianca tra Harris e Trump.
I passaggi formali
I calcoli ufficiosi e sostanziali sulla vittoria finale si faranno quasi in tempo reale, ma soltanto la riunione formale del Collegio elettorale con i 538 delegati a metà dicembre sancirà il risultato ufficiale del “November 5th”. E sulla carta c’è anche la possibilità iperbolica dell’”infedeltà” dei rappresentanti dei Grandi elettori, che non sono giuridicamente vincolati a esprimere il voto secondo le indicazioni uscite dalle urne dei loro Stati. In passato ci sono stati casi sporadici di “tradimento” che però non hanno mai influito sul risultato finale della consultazione elettorale. L’iter finale della registrazione dei voti porterà alla proclamazione ufficiale del nuovo o della nuova presidente degli Stati Uniti d’America (insieme al vicepresidente collegato), con un mandato di quattro anni. L’entrata in carica scatterà alle 12 (ora di Washington) del 20 gennaio 2025, come stabilito dal Ventesimo emendamento della Costituzione.