Un collaboratore esterno non titola i suoi pezzi. Anzi non li mette nemmeno in pagina: li invia al capo servizio e il suo lavoro finisce lì. Quindi, se un titolo viene valutato diffamatorio da un giudice - si badi bene: il solo titolo, non l’articolo - quel giornalista non può essere condannato per diffamazione a mezzo  stampa, né in sede penale né in sede civile. Se non ha fatto il titolo è evidente che non può aver commesso il reato.

Eppure è successo. Di recente. O meglio, la sentenza è recente, del luglio scorso, ma arriva la bellezza di 25 anni dopo la pubblicazione del pezzo, peraltro su un giornale che ha cessato le pubblicazioni e da tempo non è in edicola.

C’è da dire che il giornalista davanti al Tribunale penale era stato assolto. Ma le persone che si erano sentite diffamate avevano intrapreso anche la strada della causa civile che, dopo un lungo iter, si è chiusa questa estate con la condanna del giornalista al pagamento di 51mila euro. Si perché, è bene ricordarlo, il nostro sistema giudiziario in caso di diffamazione aggravata consente il doppio binario: si procede sul piano penale dove si valuta il dolo, se si arriva alla conclusione che non c’è il giornalista viene assolto. Ma se c’è un errore si può sempre ricorrere al giudice civile che valuterà la colpa. Ed ecco che, da un lato, i tempi si allungano in modo mostruoso (un quarto di secolo, in questo caso), dall’altro si arriva pure a chiedere il risarcimento dei danni a qualcuno che non ha fatto quello che viene contestato. Inoltre, prevedendo questo tipo di condanne il pagamento in solido dell’autore e della società editrice, essendo questa fallita, ecco che l’intera somma da pagare resta in capo al giornalista.

La sentenza è diventata definitiva col sigillo della Cassazione che ha ribaltato le decisione dei giudici di merito. Dunque, il collaboratore esterno dovrà pagare, a meno che la Corte europea per i diritti dell’uomo, alla quale ha fatto ricorso, non decida diversamente. Nel frattempo ha chiesto al Tribunale di sospendere gli atti di precetto per l’incasso della somma.

La vicenda è rimbalzata sulle cronache nazionali con la denuncia del sindacato dei giornalisti che si è dichiarato vicino al «collega che subisce da questa sentenza un danno gravissimo, assolutamente sproporzionato rispetto alle sue finanze, che dovrà affrontare senza la garanzia di un lavoro stabile. Purtroppo l'utilizzo della querela in Italia rappresenta uno dei bavagli più pericolosi per la libertà di stampa ed è tanto più odiosa per i collaboratori, sottopagati e sfruttati». Da tempo, conclude il sindacato, «chiediamo un intervento del legislatore per limitare l'utilizzo delle denunce temerarie nei confronti dei cronisti, ma senza alcuna risposta. Inoltre, le querele bavaglio insieme alla lunghezza inaccettabile dei processi rappresentano un cocktail micidiale che finisce per comprimere irrimediabilmente il diritto di cronaca».

I fatti risalgono al 1998: un collaboratore esterno del giornale, dopo essere andato al Palazzo di giustizia aveva scritto un pezzo su un’inchiesta e lo aveva mandato alla redazione. Chi aveva “passato” e titolato l’articolo invece di parlare di indagati aveva scritto di “tre alla sbarra”, il che implicava un avvenuto rinvio a giudizio che non c’era stato. Di lì la querela con annessa richiesta di un miliardo di lire come risarcimento danni. Il caso penale fu archiviato. E lo scontro si spostò davanti al giudice civile, dove i ricorrenti persero. Presentarono ricorso in appello e persero ancora ma le spese processuali, come spesso avviene nei casi di diffamazione a mezzo stampa, vennero compensate, ossia dovevano essere pagate sia dal ricorrente sia dal convenuto, che qui sono il giornalista e l’editore: se uno non paga la sua quota, la somma è dovuta interamente dall’altro.

Ma non era ancora finita. Ci fu un ricorso per Cassazione, ed è lì che è emersa la questione dell’autonoma valenza diffamatoria del titolo.

Nel frattempo il giornale ha dichiarato fallimento, così l’intero risarcimento ricade sulle spalle del giornalista. Per un titolo che non ha fatto.

In un’intervista il cronista ha detto: «Io lavoravo fuori dalla redazione. Con le tecnologie editoriali di quel tempo non ero in condizioni di formulare il titolo, e non avevo alcun accesso al sistema editoriale del giornale né fisicamente alla redazione. Con gli strumenti telematici disponibili i miei articoli potevano essere traslati nel sistema editoriale soltanto da altri, e solo da loro potevano essere impaginati e titolati. Se passa il principio affermato da questa sentenza si crea un pericoloso precedente per tutti i collaboratori esterni ai giornali».

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