Nello sconfinato mondo dei libri, dove ogni gusto o interesse può essere soddisfatto, vive, è proprio il caso di dirlo, una categoria davvero speciale e unica, che non si compra, né si può prendere in prestito da una biblioteca. Per “leggerla” bisogna solo avere la mente aperta a comprendere un punto di vista verso il quale siamo diffidenti o curiosi e trenta minuti a disposizione. E’ la “Human Library”, la “biblioteca umana” o “biblioteca vivente” nata nel 2000 a Copenhagen in Danimarca e da allora diffusa in moltissimi paesi, Italia compresa.

L’idea che sorregge il progetto è quella di abbattere i pregiudizi e far conoscere le storie di persone che appartengono a categorie più o meno emarginate, o vittime di discriminazioni. Conoscendo la loro esperienza e la loro opinione, si può cambiare idea. La “Human Library” è dunque uno spazio aperto in cui ciascun lettore è semplicemente invitato a costruire un dialogo franco e sincero con il suo libro “umano”, a sua volta disposto a raccontare la propria storia e a rispondere alla domande di chi ascolta.

I libri viventi sono tutte persone che hanno la consapevolezza di essere legate a stereotipi e pregiudizi ma sono anche uomini e donne desiderosi di scardinarli raccontando la propria esperienza di vita.

La “Human Library” o “Menneskebiblioteket” è stata fondata dal danese Ronni Abergel.  Insieme col fratello e alcuni amici, ebbe l’idea di radunare un gruppo di volontari che raccontassero le proprie storie e rispondessero alle domande dei curiosi durante un festival musicale. Ebbe subito un riscontro «incredibile» e in poco tempo la biblioteca raccolse «più di cinquanta “libri” diversi sui propri scaffali». Ognuna di queste persone è identificata da un titolo corto e descrittivo, per esempio “Transgender”, “Ex alcolista”, “Vittima di violenze sessuali” o “Persona con grave disabilità”, proprio come se fosse un genere di lettura; ciascuna di esse rappresenta un gruppo sociale, bersaglio di preconcetti o discriminazioni a causa della sua identità di genere, delle sue esperienze di vita o della sua religione, ma talvolta anche per il suo aspetto fisico, nazionalità o stile di vita.

Il progetto ha un’altra peculiarità: non si propone di favorire conversazioni piacevoli, ma semplicemente rispettose. «Il nostro obiettivo - spiega Abergel - è che chi partecipa ponga domande scomode, ma sempre mantenendo rispetto nei confronti dell’altro. Prima di ogni lettura/conversazione, infatti, i volontari della “Human Library” leggono ai dialoganti i “Diritti del libro e del lettore”: pur mettendosi a disposizione, il “libro” mantiene il diritto di non rispondere a domande che giudica sconvenienti per la sua persona, ed entrambi hanno la possibilità di fermare la conversazione in qualunque istante. In otto anni abbiamo permesso si svolgessero più di novecento “letture” e abbiamo assistito solo a due o tre dialoghi spiacevoli e negativi».

Ecco allora un esempio di archivio da consultare.

“Io vivo per le strade. Io vivo giorno per giorno e non ho alcun tetto sopra la mia testa. Nessun bagno da visitare, nessuna cucina per fare un caffè. Possiedo molto poco, io sono senza casa”, scrive il senzatetto.

Oppure

“Alcune persone pensano che sia pericoloso avvicinarsi a me e toccarmi. Questo è il motivo per cui l’ho tenuto segreto per molti anni. Quando le persone hanno paura di avvicinarsi a me, mi fa più male della malattia”, dice la ragazza malata di Hiv.

Pensata inizialmente come un passatempo, una decina di anni dopo la sua apertura Abergel ha iniziato a dedicarcisi a tempo pieno, esportando il progetto in più di 80 paesi, tra cui Norvegia, Portogallo, Australia e Singapore. In questi anni la biblioteca ha organizzato eventi anche in Italia, per esempio a Torino, a Firenze e a Verona, e ne ha ispirati altri del tutto simili in molte città, come a Milano. Tornando a Copenaghen, alla “Menneskebiblioteket” c’è anche un giardino di lettura dedicato, dove lavorano alcune persone che aiutano a trovare i “libri” disponibili e a organizzare gli incontri. Infine dal 2003, l’ “Human Library” è stata riconosciuta dal Consiglio d’Europa come “buona prassi” perché all’intolleranza risponde con la comprensione.

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