Tra i 920mila lemmi che hanno popolato il 2023, l’Istituto della Enciclopedia italiana Treccani ha deciso di sceglierne uno per «stimolare la riflessione e promuovere un dibattito costruttivo intorno ad un tema che è prima di tutto culturale»: si tratta del vocabolo femminicidio, che quasi quotidianamente troviamo sui mass media, visto che le vittime di omicidio di sesso femminile, fino al 25 novembre 2023, sono state 106 (di queste 87 sono state uccise in ambito familiare o affettivo. In 55 di questi casi l'omicida era un partner o un ex partner).

«Femminicidio — dice Valeria Della Valle, direttrice, insieme a Giuseppe Patota, del vocabolario Treccani — ci è sembrata anche una parola indispensabile e purtroppo utile: volevamo dare il nostro contributo, un contributo piccolo, linguistico, sperando che anche questo possa servire a riflettere su un crimine odioso, che possa coinvolgere tutti a prendere coscienza e consapevolezza di un fenomeno pressoché quotidiano».
La parola comparve per la prima volta nel 2001 sul quotidiano “la Repubblica”, per poi entrare come neologismo nel vocabolario Treccani del 2008. Negli anni è stata spesso criticata e ritenuta superflua: non basta uxoricidio o, semplicemente, omicidio? Già dieci anni fa l’Accademia della Crusca rispose che no, non erano sufficienti le parole già presenti nel nostro lessico, poiché femminicidio sottolinea la cultura discriminatoria in cui matura l’omicidio.

Come scriveva Michela Murgia, «la parola femminicidio non indica il sesso della morta. Indica il motivo per cui è stata uccisa, ci dice il perché».
E il perché ci riguarda tutti, come ben sosteneva Marcela Lagarde, antropologa messicana, considerata la teorica del femminicidio: «La cultura in mille modi rafforza la concezione per cui la violenza maschile sulle donne è un qualcosa di naturale, attraverso una proiezione permanente di immagini, dossier, spiegazioni che legittimano la violenza. Siamo davanti a una violenza illegale ma legittima: questo è uno dei punti chiave del femminicidio».

La scelta di questa parola, quindi, è un invito alla riflessione sulla discriminazione di genere, che passa anche attraverso i vocaboli che quotidianamente usiamo.

Certo, non siamo più nella Grecia antica, in cui fu teorizzata per la prima volta l’inferiorità delle donne, tanto che si riteneva che la donna fosse incapace di raggiungere la piena maturità e, quindi, che fosse necessario affidarla alla tutela del padre, prima, e del marito, poi.

Ma la cultura discriminante esiste e le parole la registrano: qualche anno fa Paola Cortellesi recitò un monologo, scritto da Stefano Bartezzaghi, in cui è evidente come molte parole usate al femminile (cortigiana, zoccola, passeggiatrice, massaggiatrice) assumano una connotazione sessuale e spregiativa che al maschile non hanno, e terminava il suo intervento chiedendosi se fossero solo parole o, invece, il riflesso della realtà in cui viviamo.

La lingua, infatti, non è neutrale ed influenza significativamente i sistemi simbolici di tutti noi. Della Valle e Patota, da linguisti, ritengono che le parole veicolino le idee: hanno preferito scegliere una parola che gronda sangue, piuttosto che una positiva, poiché vogliono smuovere le coscienze, nella consapevolezza che la lingua possa dare un messaggio sociale e contribuire a combattere le discriminazioni.

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