Di solito se un politico teme gli accertamenti fiscali è perché potrebbero svelare che è molto più ricco di quel che si pensava e di quel che lui stesso sosteneva. Questo non vale solo per gli uomini politici, evidentemente, ma per qualunque contribuente. Per tutti, insomma, tranne che per Donald Trump. Per il presidente degli Stati Uniti l'incubo è che i documenti dimostrino che è molto meno facoltoso di quel che ama lasciar credere, e che le sue proprietà - come sostiene il New York Times e come sospetta la procura - sono finanziariamente sopravvalutate.

Questa vicenda ha inizio il 12 agosto 2016, quando la candidata democratica alla Casa Bianca, Hillary Clinton, pubblica la sua dichiarazione dei redditi e invita il candidato repubblicano a fare altrettanto. Non c'è un obbligo di legge ma è dal 1973, secondo una prassi di trasparenza inaugurata dal repubblicano Richard Nixon, che gli aspiranti inquilini della Casa Bianca mettono in piazza i propri guadagni e i propri averi. Hillary, per la cronaca, non se la passa per niente male: il suo libro più recente le ha fruttato introiti per 3 milioni di dollari, che si aggiungono ai 5,2 milioni arrivati in casa Clinton grazie alle conferenze a pagamento di suo marito Bill. Ma sono ricchezze incomparabilmente inferiori rispetto a quelle di Donald Trump, che vanta di avere una fortuna da 10 miliardi di dollari. In realtà in quel 2016 Forbes gli accredita meno della metà, 4,5 miliardi, ma la trasparenza fiscale imposta dalla campagna elettorale sembra destinata a risolvere rapidamente la querelle.

Invece non accade: primo candidato in oltre 40 anni di storia recente, il costruttore newyorkese rifiuta di pubblicare la sua dichiarazione dei redditi. E continuerà a farlo anche dopo l'elezione e perfino dopo l'insediamento alla Casa Bianca.

Ma questo, appunto, è solo il prologo.

L'anno successivo, nel 2017, il Dipartimento della Giustizia nomina l'ex direttore dell'Fbi Robert Mueller procuratore speciale per l'indagine sul Russiagate, un caso che vede intrecciarsi fattispecie molto diverse fra loro ma tutte piuttosto imbarazzanti per il presidente, dai contatti impropri fra il comitato per la sua campagna elettorale e soggetti russi fino alle pressioni sull'Ucraina perché riapra un'inchiesta su Joe Biden e suo figlio. La gran parte delle accuse dirette contro Trump finiranno dissolte nel calderone politico-giudiziario del processo per impeachment, che i democratici hanno abbastanza forza per aprire ma non per chiuderlo a proprio vantaggio. Però ci sono reati minori - o meglio: reati gravi imputabili a personaggi minori - che restano sospesi nell'atmosfera, a disposizione di chi li trovi significativi. In particolare c'è la gestione dei fondi per la campagna elettorale da parte dell'avvocato Michael Cohen, braccio destro di Trump in molte vicende societarie e poi politiche, che incuriosisce gli inquirenti. Il sospetto è che non solo il presidente abbia fatto pagare l'ex pornostar Stormy Daniels perché tacesse su una loro relazione, ma che i soldi provengano dai fondi elettorali. Ce n'è a sufficienza non solo per far finire Cohen in carcere, ma per motivare il procuratore di Manhattan Cyrus Vance jr a farsi un'idea più precisa sulle sostanze di Trump e la loro gestione.

E non è una curiosità soltanto sua. Nel 2018 con le elezioni di mid term i democratici falliscono l'assalto al Senato, che resta sotto il controllo repubblicano, ma ottengono la maggioranza al Congresso. A quel punto il Ways and Means Committee, la commissione per gli stanziamenti della camera bassa, promuove un'azione legale contro il Dipartimento del Tesoro che si trincera dietro la privacy per non consegnare le dichiarazioni dei redditi presidenziali. Accanto a questa azione a livello federale parte un'iniziativa statale: il Congresso dello Stato di New York approva una legge che gli dà accesso ai documenti fiscali di Trump (non in quanto presidente ma come immobiliarista attivo nella metropoli). Il procuratore Vance chiude la tenaglia sull'altro lato dell'offensiva, insistendo per visionare quelle dichiarazioni che non dimostrerebbero solo che Trump ha usato scorrettamente i fondi elettorali ma (quel che è più grave) che ha gonfiato il valore dei sui immobili per ottenere prestiti dalle banche e poi li ha sgonfiati quando c'è stato da pagarci sopra le tasse.

Gli avvocati del presidente danno battaglia opponendosi in ogni grado di giudizio a tutte le richieste, quelle del Congresso e quelle della Procura newyorkese, fino ad arrivare alla Corte Suprema. Qui siamo su un terreno teoricamente favorevole al tycoon che, nominando due giudici per completare il plenum, ha cristallizzato su 5 a 4 l'esile ma decisiva maggioranza di giudici conservatori su quelli di ispirazione liberal. Davanti alle toghe supreme degli Usa i legali del presidente rivendicano l'assoluta immunità del presidente: Trump non solo può infischiarsene se un giudice delle corti inferiori gli impone di consegnare la dichiarazione dei redditi al congresso oppure agli inquirenti, ma addirittura «potrebbe andare sulla Quinta Strada, a New York, e uccidere qualcuno» senza che gli si possa fare nulla. È un argomento curiosamente simile a un concetto espresso da Trump durante la scorsa campagna elettorale, quando per ostentare sicurezza nella sfida con Hillary spiegava: «Potrei scendere in strada e ammazzare qualcuno e mi eleggerebbero lo stesso».

Quella davanti alla Corte Suprema è una partita in cui Trump ha disperatamente bisogno di una vittoria. Quel che otterrà è un po' meno di un pareggio: la Corte boccia la richiesta del Congresso come "non è sufficientemente motivata", ma decide che non si può ignorare quella avanzata dalla Procura. Come scandisce il presidente, il giudice conservatore John Roberts, nominato a suo tempo da George W. Bush: «Duecento anni fa, un grande giurista della nostra Corte ha stabilito che nessun cittadino, nemmeno il presidente, è al di sopra del dovere comune di produrre evidenza se viene citato in un'indagine penale».

Il verdetto è stato raggiunto con un'ampia maggioranza di sette giudici a due, anche i giudici nominati da Trump (Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh) votano per riaffermare che negli Stati Uniti d'America neppure il presidente è al di sopra della legge. Certo, il procuratore Cyrus Vance jr (se il nome suona familiare è perché è il figlio omonimo del segretario di Stato della presidenza Carter) potrà usare quelle carte in un Grand Jury e questo impedirà che diventino di evidenza pubblica. Però le userà per corroborare un'accusa grave e infamante, una frode a banche e compagnie di assicurazione. Nei giorni scorsi Vance ha ripresentato la richiesta, lasciando intendere abbastanza chiaramente che Trump è da considerarsi indagato. Ora la corsa di inseguitori e inseguito si divide in due tranche. La prima è quella che va da oggi al 3 novembre, e qui è avvantaggiato il presidente: è probabile che i suoi difensori trovino abbastanza appigli per non far uscire dalla Casa Bianca la documentazione prima del 3 novembre. Il secondo step va dal 4 novembre in poi: comunque vadano le elezioni, l'inchiesta sembra destinata ad arrivare a conclusione. E se Trump dovesse fallire la rielezione, potrebbe ritrovarsi gravemente imputato e senza più scudi costituzionali e politici a tutelarlo. Uno scenario che ha due possibili clamorose conclusioni, almeno secondo i trumpologi più smaliziati. La prima è che con un gesto senza precedenti il presidente si conceda il perdono presidenziale, in sostanza si autograzi. Il secondo è che subito prima della scadenza del suo mandato si dimetta e faccia così subentrare alla presidenza Mike Pence, che entrerebbe nei libri dei record e nei manuali di diritto costituzionale diventando il 46° presidente degli Stati Uniti per 24 ore. Giusto il tempo di prestare giuramento, sedere alla scrivania dello Studio Ovale e firmare la grazia per il suo predecessore. Come fece Gerald Ford 46 anni fa con Richard Nixon, l'unico presidente americano costretto alla dimissioni da uno scandalo, oltre che il candidato che inaugurò la prassi di pubblicare la propria dichiarazione dei redditi.
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