Fino al 30 aprile ha soggiornato a Roma per mezzo dei suoi dipinti; ora ritorna di persona, con la sua chitarra e la sua voce sgraziata e carismatica, inimitabile nonostante innumerevoli tentativi di imitazione. Il 2023 è forse l’anno più “italiano” di Bob Dylan: perché dopo qualche tempo il suo Never ending tour ripassa da queste parti, ma soprattutto per la ben più rara possibilità concessa ai fan locali di conoscere a fondo la faccia nascosta della sua arte, quella figurativa. Dal dicembre 2022 a tutto aprile il Maxxi di Roma ha ospitato l’esposizione “Retrospectrum”, fatta di oltre cento opere: soprattutto quadri ma anche disegni, acquerelli e pure qualche scultura. Per chi se la fosse persa, ora l’intera collezione si può ammirare in un volume intitolato come la mostra, edito da Skira editore su progetto grafico di Anna Cattaneo, con testi dello stesso Dylan e di vari testimoni tra cui Shai Baitel (curatore della mostra), Alain Elkann e Caterina Caselli, che tra l’altro racconta di un’improbabile cena in cui si ritrovò insieme al cantante dopo un concerto a Milano nel 1987.

Il lato nascosto

Non è notissima questa parte della produzione dylaniana, che già da decenni ha affiancato il lavoro sulle canzoni, ma che ha gradualmente assunto un’importanza crescente. Ne è una conferma lo sbarco in Europa, proprio nella capitale italiana, della raccolta dei suoi lavori (presentati di recente anche a Shangai e Miami). Certo, se esistesse il premio Nobel per la pittura, Dylan probabilmente non arriverebbe neanche a sfiorarlo, a differenza di come invece sia riuscito ad aggiudicarsi quello per la letteratura. Eppure in quelle tele si riconosce lo sguardo indagatore e riflessivo che è all’origine dei suoi capolavori musicali.

Lo stile è quello di un realismo problematico, con uno studio dei personaggi che può ricordare Edward Hopper, e un lavoro sulla luce che risale addirittura all’impressionismo. Poco originale, si dirà, e in effetti talvolta si ha la sensazione di trovarsi di fronte alla trasposizione in olio su tela di una bella fotografia, o della scena di qualche serie tv alla Breaking Bad. Ma l’impronta del genio di Dylan si riconosce sempre; e del resto, la capacità di ispirarsi ad artisti, opere e stili precedenti riuscendo però a creare qualcosa di assolutamente nuovo (e dirompente) è esattamente ciò che contraddistinse gli esordi di quel giovanotto timido, arrivato a New York all’inizio degli anni ’60 senza rendersi conto, neppure lui, del talento fuori scala che covava dentro di sé.

Un'immagine della mostra "Retrospectum" al museo Maxxi di Roma (foto Ansa)
Un'immagine della mostra "Retrospectum" al museo Maxxi di Roma (foto Ansa)
Un'immagine della mostra "Retrospectum" al museo Maxxi di Roma (foto Ansa)

“Retrospectrum” conferma quanto poliedrico fosse quel talento. Anche i suoi dipinti, come le canzoni, raccontano un’America perlopiù di seconda fila, dove la quantità di luci e insegne e marchi sfavillanti non riesce a celare l’abbandono, la miseria, in definitiva l’angoscia del vivere quotidiano. Senza le parole dei suoi testi da Nobel, i quadri e i disegni di Dylan ci lasciano percepire l’insensatezza di una società che ha di fatto annullato e confuso tutte le possibili identità tranne una, quella data dal consumo.

L’unica speranza, in questo mondo dai colori forti e malinconici, è ancora una volta l’arte. Come nello schizzo in cui un uomo ascolta un vinile, e la copertina sul tavolino accanto è quella di un disco di Neil Young (una volta Dylan confessò di essere andato a visitare la casa natale di Young, a Winnipeg, in Canada: “Volevo vedere la sua stanza, dove aveva guardato fuori dalla finestra, dove aveva sognato”). L’arte oppure la bellezza, come nell’opera che ritrae la scalinata di Trinità dei Monti a Roma, non a caso intitolata “Quando dipingerò il mio capolavoro”, come un suo brano: e non uno qualsiasi, ma quello in cui descrive una sua avventura nella capitale italiana.

Quell’avventura nella Capitale

Chissà se il pezzo si riferisce alla leggendaria trasferta romana di Dylan nei primissimi anni ’60, quando – pare – si esibì, ancora da semisconosciuto, al Folkstudio. Chi ha ricostruito quel viaggio di una stella non ancora nata, dice che in realtà il giovane cantautore fosse arrivato in Italia per inseguire la sua amata Suze Rotolo, che lo aveva lasciato volando a Perugia per imparare l’italiano; ma che, all’arrivo di Dylan, era già rientrata in America.

Una spettatrice davanti a un dipinto di Dylan intitolato "Endless Highway"
Una spettatrice davanti a un dipinto di Dylan intitolato "Endless Highway"
Una spettatrice davanti a un dipinto di Dylan intitolato "Endless Highway"

Ora, a un paio di mesi dalla fine dell’esposizione del Maxxi, sarà ancora Roma la tappa finale del tour italiano di Bob Dylan, domenica 9 luglio all’Auditorium Parco della musica. Ci arriverà dopo altre quattro date: lunedì 3 e martedì 4 a Milano, Teatro degli Arcimboldi; giovedì 6 l’esibizione al Lucca Summer Festival; e il giorno dopo all’Arena Santa Giulia di Perugia. I biglietti ovviamente sono andati esauriti poco dopo l’annuncio della tournée, è rimasto poi qualcosa sul mercato secondario ma poca roba, e a prezzi improponibili. Un po’ perché il fattore anagrafico (ha compiuto 82 anni) porta a temere che non saranno ancora molte le occasioni per vedere una simile leggenda suonare dal vivo in Italia; ma soprattutto perché i suoi fan, come adepti di una religione che non tollera le infedeltà, sono pronti a fare tutto per lui e a perdonargli tutto. Non sanno se la versione 2023 di Dylan sarà quella quasi cordiale talvolta mostrata al pubblico negli ultimi anni (dopo il concerto a Cagliari, nel 2000, comparve d’improvviso nel retropalco per firmare autografi), o quella scontrosa che più spesso ha portato in giro; ma in fondo non gli importa. E anzi, per chi davvero ama Bob Dylan, pure il carattere riservato fino ai confini della maleducazione risulta un tassello, non secondario, di tutto ciò che ne fa un mito vivente.

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