Nella sua vita ha fatto tante cose. Studiato prima di tutto, ma anche ricoperto incarichi importanti nella politica e nel mondo della scuola. Franco Camba, 55 anni, a Selargius è stato il più giovane assessore, forse all'epoca - era il 1985 - d'Italia. Prese i Servizi sociali in una Giunta pentapartito che aveva poco più di diciott'anni, realizzando un piano d'intervento che resiste ancora nell'organizzazione strategica degli uffici. Democristiano, cattolico fervente, non ha mai derogato dal selciato dello scudocrociato fino alla nascita e alla crescita dell'Udc. Ben ventiquattro anni nell'amministrazione comunale ricoprendo le cariche di assessore, vicesindaco e presidente del Consiglio. Per molti anni ha lavorato nella formazione professionale, dirigendo tra l'altro il centro di formazione salesiano di Selargius. E ha approfondito i suoi studi in teologia, scienze religiose e bioetica, che lo hanno portato a prendere contatto con le più alte sfere della Chiesa. Le sue tesi: una sulla fenomenologia del pellegrinaggio, una sulla teologia del diritto canonico e un'altra sugli aspetti storici, bioetici e biogiuridici della prostituzione. Dopo aver collaborato con il Seminario regionale di Cagliari, da tre anni è il segretario particolare dell'arcivescovo di Sassari, Gian Franco Saba, primo laico a ricoprire questo incarico nell'Isola.

Camba, lei è amico personale di monsignor Saba: si aspettava questa chiamata?

"A monsignor Saba mi legano non solo una profonda amicizia ma anche alcune vicende personali della mia vita: fu lui a dare l'unzione degli infermi a mia madre e, pochi giorni dopo, a presiedere la celebrazione dei suoi funerali. Ma pur essendo la nostra un'amicizia profonda, la sua chiamata non me l'aspettavo davvero. Ho accettato senza tentennamenti, rinunciando all'insegnamento nelle scuole medie, consapevole di essere chiamato, al di là dell'amicizia e del rapporto di fiducia, a svolgere un servizio per la Chiesa".

Su quali direttrici ha impostato il suo lavoro per la Chiesa turritana?

"Il mio lavoro si svolge in stretto raccordo con l'attività dell'arcivescovo, occupandomi della sua segreteria particolare. Le direttrici che presiedono la mia attività sono date sostanzialmente dal piano pastorale diocesano che coinvolge il clero, le congregazioni religiose e i laici, con una costante relazione con le istituzioni civili, accademiche e militari del territorio".

Come contate di integrare la Pastorale del Lavoro, vera piaga della Sardegna, per renderla più incisiva?

"Sulla denuncia delle problematiche dei territori del nord-ovest della Sardegna in questi tre anni non sono mancati gli interventi dell'arcivescovo, attento non solo a leggere i bisogni di un tessuto socio-economico ferito che necessita di una particolare attenzione da parte delle autorità politiche, ma anche a tessere legami di solidarietà e di coesione tra le parti. In proposito mi vengono in mente gli interventi di monsignor Saba in occasione della crisi del settore lattiero caseario di poco più di un anno fa. La diocesi di Sassari, attraverso la fondazione nata per volontà dell'arcivescovo, si è resa promotrice di diverse iniziative di studio, attraverso appositi percorsi formativi laboratoriali sull'economia e l'impegno politico e corsi di alta formazione attivati in collaborazione con le istituzioni universitarie".

Lei ha avuto un ruolo pubblico in una realtà con un alto Pil generale, ma socialmente difficile. In Sardegna la povertà è tangibile soprattutto nelle periferie, ma spesso si nasconde. Come si fronteggia?

"Oggi si può essere poveri di molte cose: non solo di beni materiali, povertà che si vede più facilmente, ma anche di beni immateriali, relazionali. Per fronteggiare la povertà, ma sarebbe meglio dire le povertà, questo è un dato da tener presente perché il più delle volte la mancanza degli uni influisce sulla mancanza degli altri e viceversa, dando luogo a una "condizione", la cui dimensione materiale è sempre intrecciata con quella relazionale-socio-culturale. Infatti è povero chi rivendica il diritto al lavoro, così come lo è la persona che non riesce a sottrarsi a relazioni malsane e manipolatorie, e lo è anche il giovane che non vede altro se non la propria solitudine dalla quale non scorge alcuna via di fuga. Occorrono azioni politiche concrete con strategie, linee progettuali e obiettivi capaci di creare crescita culturale e occupazione perché il lavoro è una realtà essenziale per la società, per le famiglie e per i singoli".

Lo smantellamento della formazione professionale non ha limitato in questi anni, non trova?

"Senza dubbio. Lo smantellamento del sistema regionale della formazione professionale, a mio avviso, è stato un grande errore. La formazione professionale, in particolare quella iniziale e superiore, seriamente programmata in raccordo con le realtà produttive, per decenni ha contribuito a qualificare migliaia di giovani che si sono potuti inserire facilmente nel mondo del lavoro. Negli anni in cui sono stato direttore del centro salesiano di Selargius, mi capitava di ricevere per l'iscrizione ai corsi ragazzi accompagnati dal proprio genitore che venti o trent'anni prima era stato allievo dello stesso centro di formazione: quella per me era la conferma della validità della proposta formativa ed educativa. I dati dei monitoraggi post qualifica ci hanno sempre confortati con le altissime percentuali degli inserimenti lavorativi".

Quali sono gli altri temi su cui intervenire con maggiore urgenza?

"Le crisi che attraversiamo trovano gran parte delle responsabilità all'interno di una cultura che, ogni giorno, tende a rinforzarsi e a confermarsi attraverso un comportamento sempre più diffuso. Mi riferisco alla cultura dell'individualismo, nata a sua volta dalla dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e lascia come ultima misura solo il proprio io che viene assolutizzato. È importante cercare di non ripiegarsi su se stessi al punto tale da ritenersi gli unici, anche i soli ad attraversare delle difficoltà. Come scrive il sociologo Zygmunt Bauman, dobbiamo però evitare di formare idilliache immagini del passato, perdendo di vista il presente e disperando nel futuro. Per superare il "deserto" la solidarietà è la risposta decisiva, con seri investimenti a favore della cultura e dello sviluppo".

Lei si è preso una pausa dalla politica. Non trova necessario un rinnovato impegno dei cattolici nell'amministrazione della cosa pubblica?

"Il mio impegno in politica fu caldeggiato dal mio parroco, il compianto monsignor Mario Pisano, quando frequentavo l'ultimo anno di liceo. Fu lui ad avviarmi ai primi incontri di formazione politica e a insegnarmi, con le parole di papa Paolo VI, che "la politica è la più alta forma di carità", dove carità vuol dire amore per l'altro, a prescindere dalla religione professata, dalla cultura di appartenenza, dal colore della pelle, dalla lingua con cui si esprime. Per questo il laicato cattolico non può non essere interessato alla politica, perché la stessa esperienza di credenti rende sensibili alla dimensione sociale e a quella dei bisogni, alla questione del bene comune. E ciò vale non solo per i cattolici che si dedicano "professionalmente" alla politica, ma per ogni cattolico in quanto cittadino. Con scelte coerenti tra fede e vita, tra vangelo e cultura, e con una preparazione adeguata, perché ad amministrare la cosa pubblica non ci si improvvisa".

Lei è un cultore della figura politica di Giorgio La Pira. L'insegnamento dell'ex sindaco di Firenze è ancora attuale a distanza di oltre cinquant'anni?

"Giorgio La Pira rappresenta un altissimo esempio di uomo politico che per tutta la vita ha tessuto rapporti con nazioni, esponenti politici, personalità di rilievo mondiale perché ha creduto nella possibilità di realizzare condizioni di coesistenza pacifica intravedendo, profeticamente, che l'Europa e il mondo si sarebbero altrimenti trovati ad affrontare guerre, lotte interne, movimenti di popoli, urgenze di integrazione. L'azione dell'ex sindaco di Firenze è sempre stata guidata dall'idea che fosse possibile il dialogo, che si potessero realizzare progetti di intesa e di collaborazione tra popoli diversi, che fosse possibile creare condizioni nuove di vita insieme sulla base di una disponibilità personale a rivedere le proprie posizioni, a confrontarle, a comprendere le esigenze degli altri. Questi insegnamenti sono sicuramente ancora attuali".

Chi sceglie tra Enrico Berlinguer e Giulio Andreotti?

"Per la mia esperienza democristiana dico senza esitazione Giulio Andreotti. Ma nel contempo non posso non mostrare rispetto per i valori e la statura morale e politica del leader comunista".

E tra Conte e Salvini?

"A questa domanda rispondo con un sorriso".

Tornando alla Chiesa, come giudica il Pontificato di Papa Francesco?

"L'accostamento del termine "papa" al nome del poverello di Assisi, sino al 13 marzo di sette anni fa, era tutt'altro che scontato: non a caso non si era mai osato farlo nella storia della Chiesa. Ad alcuni appare come un ossimoro, la figura retorica che accosta due termini di significato contrario o comunque in forte tensione l'uno con l'altro. Francesco è il nome di colui che ha scosso la Chiesa del suo tempo con un'opzione radicale per la povertà, un atteggiamento che è stato fonte di energia per la ricostruzione della Chiesa. Il termine "papa", pastore della Chiesa ma anche capo di Stato della Città del Vaticano, richiama immediatamente la struttura istituzionale ecclesiale, con gli aspetti che la avvicinano a ogni amministrazione burocratica. Così se "papa" ben rappresenta l'istituzione, Francesco è l'incarnazione del carisma. Questi due estremi Bergoglio li ha messi insieme con la scelta del proprio nome. Carisma e istituzione, per alcuni inconciliabili. Ma non in papa Francesco che, da subito, si è impegnato a trasformare la tradizionale separazione - e talvolta opposizione - tra Chiesa carismatica e Chiesa istituzionale, in una tensione vitale e feconda in cui abitare, in una sorgente di fedeltà creativa alla propria missione. Ci troviamo di fronte a un ossimoro in carne e ossa, che continua a sorprendere per la cordialità, l'immediatezza, la ricerca del contatto diretto. Il suo è un pontificato che cerca in tutti i modi di evitare la malattia spirituale della Chiesa autoreferenziale".

Ha mai avuto un incontro privato col Pontefice?

"Ho avuto modo di incontrare papa Francesco due volte: la prima, in occasione della sua visita a Cagliari, la seconda in Vaticano, dopo aver partecipato alla Messa da lui celebrata nella cappella di Santa Marta".

E con Ratzinger?

"Papa Benedetto non l'ho mai incontrato. Un giorno però ho chiesto a monsignor Georg Gänswein, suo segretario particolare, di portare il mio abbraccio al papa emerito".

I punti deboli nell'operato di Bergoglio?

"Sinceramente non ne trovo. Piuttosto ritengo pretestuosi gli argomenti portati da chi non si riconosce nel suo magistero".

Il suo augurio alla Sardegna e alla Chiesa sarda.

"Il mio augurio alla Sardegna è che la classe politica possa essere in grado di delineare le più opportune prospettive di sviluppo e di gestire le sfide future, in questo particolare tempo di crisi. Alla Chiesa sarda auguro di essere sempre segno di speranza e di carità, attenta ai vicini e premurosa verso i lontani".

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