Probabilmente non puoi scrivere una canzone come Like a rolling stone se non sei stato anche tu una pietra che rotola, presa a calci dalla vita. Ma non è detto che questo significhi necessariamente aver conosciuto la povertà materiale. C’è almeno un’altra chiave di lettura, che è stata avanzata per spiegare l’origine del brano giudicato come il più bello del Ventesimo secolo. Ed è la depressione. Legata al fatto che nel 1965, poco prima di partorire il suo capolavoro, Bob Dylan avesse manifestato addirittura l’intenzione di smettere di scrivere. In realtà però su quel testo esistono varie interpretazioni, e una mole di studi come forse non è successo a nessun’altra opera pop (e già la definizione sta stretta). Un italianista dell’Università di Pisa, Mario Gerolamo Mossa, le ha dedicato addirittura un intero saggio di oltre 300 pagine. In lingua inglese, poi, la letteratura è sterminata.

Un giovane Bob Dylan (foto Ansa)
Un giovane Bob Dylan (foto Ansa)
Un giovane Bob Dylan (foto Ansa)

I biografi di Dylan – leggenda vivente di cui il mondo ha appena finito di festeggiare gli 80 anni – hanno spesso sottolineato che, in realtà, l’aria da sbandato che gli piaceva assumere quando arrivò a Manhattan, nei primi anni ’60, era in gran parte artificiosa. Un modo per costruirsi una corazza da duro a protezione della sua vulnerabilità emotiva. Era nato da una famiglia ebrea del Minnesota non ricca ma medio borghese, e nella prima parte della sua vita non aveva certo patito la fame. E allora come ha fatto, quel ventenne tanto sensibile e un po’ fanfarone, ad acquisire nel giro di soli 3-4 anni quella maturità, quella profondità che gli ha consentito di scrivere versi tipo “Come ci si sente a dovertela cavare da sola/senza una casa a cui tornare/come una perfetta sconosciuta”?

La risposta più comune fa riferimento all’ipotesi che Like a rolling stone sia stata scritta per (o semmai contro) Edie Sedgwick, figura tragica della scena glamour newyorkese, modella adorata da Andy Warhol, e tanto bella quanto incapace di vincere i suoi demoni. Al punto da perdersi nella droga e nell’instabilità psichica, fino alla morte prematura nel 1971. Qualcuno ha parlato di una relazione tra lei e Dylan, mai confermata. Altri ritengono che al tempo in cui fu scritta la canzone lui non l’avesse neppure ancora conosciuta. Importa poco.

Di certo, l’autore del brano sfoga la sua rabbia verso un personaggio femminile (“Miss Lonely”). Ma molti critici, negli anni, hanno osservato che quelle domande insistite (“how does it feel/how does it feel”) sono presumibilmente rivolte anche a se stesso. Magari pensando ai primi tempi a New York, pochi soldi in tasca, sistemazioni di fortuna da qualche amico, la paura di non riuscire a far apprezzare il proprio talento. È verosimile che Like a rolling stone contenga tutto questo, ma forse rappresenta soprattutto l’esplosione di un animo oppresso dal male di vivere. È un’ipotesi sostenuta da più parti. Anche da psicologi e neuroscienziati: pochi artisti hanno visto la loro opera studiata e dissezionata più di quanto sia successo a Bob Dylan. E questo capolavoro è quello finito più di tutti sotto il microscopio dell’analisi del testo e del contesto. Anche perché ha una genesi molto peculiare, e arcinota. Con dettagli al confine tra verità e leggenda, come capita spesso con Dylan: ma di sicuro il brano costituisce l’uscita geniale e sorprendente da una fase di difficoltà esistenziale.

Nel ’65 la poetica dylaniana è già famosa nel mondo, soprattutto grazie a Blowin’ in the wind, A hard rain’s a-gonna fall e altre ballate a sfondo politico. Ma c’è qualcosa di irrisolto tra quel ragazzo del Minnesota e la gloria improvvisa. Non a caso, sembra che la corda tesa della sua psiche arrivi a spezzarsi a margine di un’occasione teoricamente di successo, un concerto alla Royal Albert Hall di Londra che chiude un tour europeo molto seguito dal pubblico e dai media.

Ecco, forse il nodo di quello spleen è proprio il rapporto con i media. Nel clima da guerra fredda degli anni ’60, molto politicizzato, tutti cercano di estrarre il messaggio profondo e profetico dalle liriche, spesso ermetiche, di Dylan. Che invece non aspira al ruolo di profeta e mal sopporta il peso di questa aspettativa su di lui. Gli rende pesante anche scrivere canzoni, che invece è la cosa che da sempre gli viene più naturale. Compare la droga (come confesserà lui stesso), non si sa se più causa o effetto della sua condizione instabile. Dylan si è pure già disamorato di alcune delle sue creazioni, ma il pubblico dei concerti vuole sentire proprio quelle. È una gabbia dorata, e lui decide di tirarsene fuori con uno scatto di nervi. Dietro le quinte del palco londinese – a quanto pare: è uno di quei dettagli che sforano nel mito – comunica al suo agente che si ritirerà dalle scene e smetterà di scrivere.

Sappiamo com’è poi andata nella realtà. E la prima smentita, nei fatti, del suo ritiro creativo è proprio Like a rolling stone, composta in quelle stesse settimane di tormento interiore. Il testo inizialmente non ha una forma-canzone. È qualcosa di non classificabile, un flusso di coscienza che si protrae per parecchie pagine (il numero esatto varia di molto nelle diverse ricostruzioni, anche dell’autore: altra sfumatura volutamente immersa nella nebbia della leggenda). Il resto è storia nota: Dylan taglia il testo – ma non troppo, verrà fuori comunque una canzone di più di sei minuti – e aggiunge una musica semplice ma perfetta per quelle parole, poi a rendere il tutto indimenticabile arriveranno l’organo magico di Al Kooper e soprattutto la voce, il marchio dylaniano, un urlo che sa al tempo stesso di invettiva e sberleffo, tagliente e fastidiosa come un’unghia spezzata.

Bob Dylan in concerto a Cagliari il 2 giugno 2000 (foto Solinas/Archivio US)
Bob Dylan in concerto a Cagliari il 2 giugno 2000 (foto Solinas/Archivio US)
Bob Dylan in concerto a Cagliari il 2 giugno 2000 (foto Solinas/Archivio US)

Della depressione di Dylan si occuperanno i suoi biografi. Del rapporto con la sua opera, alcuni esperti di psicologia e neuroscienze. Del legame stretto con Like a rolling stone, ha ragionato a lungo, tra gli altri, un saggista controverso, Jonah Lehrer. Nel suo volume “How creativity works” (“Come funziona la creatività”), analizzando l’opera di molti artisti, spiegherà che alcuni scienziati vedono il genio come la reazione che conduce fuori da un apparente vicolo cieco. “Ogni viaggio creativo inizia con un problema, un sentimento di frustrazione, la sofferenza per non essere capaci di trovare una risposta”, scrive Lehrer: che poi sarà costretto a ritirare il libro per aver falsificato alcuni dati e citazioni, ma la parte dylaniana conserva la sua sostanziale validità.

Se Like a rolling stone riesce a tirar fuori il proprio autore dalle sabbie mobili della mente, non è tanto per il successo che riscuote, ma perché lo mette in pace con la ricerca di un’arte che gli somigli davvero. Non esiste controprova, ma senza quel brano forse la carriera del futuro premio Nobel si sarebbe fermata più di mezzo secolo fa. Cagliari non avrebbe potuto tributargli la sua devozione nel concerto di un giugno ormai lontano, nel 2020. E oggi nessuno si ricorderebbe di lui. Se non come una delle tante meteore musicali, un ragazzo bravo ma fragile. Ora invece quel ragazzo ha compiuto 80 anni ed è ancora un musicista visionario, come dimostra la sua Murder must foul, pubblicata a sorpresa nel 2020: un altro flusso di coscienza, 17 minuti dedicati all’omicidio Kennedy, quindi ai segreti che l’America non confessa neppure a se stessa. Gli esperti hanno già cominciato a sezionarla e a soppesarne ogni parola, come accadde per Like a rolling stone. Bob Dylan ha smesso da tempo di ascoltare le domande di chi gli chiede il significato di questo o quel verso. Ma il mondo non smetterà di cercare, nelle sue canzoni, un pezzo della verità profonda che ci riguarda tutti.

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