La svolta il primo ottobre, la sentenza è stata letta dopo otto ore di camera di consiglio. La Corte d'assise di Cosenza ha inflitto sedici anni di carcere a Isabella Internò, accusata di omicidio in concorso con ignoti per la morte dell'ex fidanzato, il calciatore del Cosenza Donato Denis Bergamini, avvenuta a Roseto Capo Spulico il 18 novembre del 1989. Prima della sentenza l'imputata aveva detto: «Voglio solo dire che sono innocente e non ho commesso niente. Lo giuro davanti a Dio. Dio è l'unico testimone che non posso avere al mio fianco».

I giudici hanno ridimensionato la richiesta dell'accusa - 23 anni - concedendo le attenuanti prevalenti sulle aggravanti. L'imputata ha assistito alla lettura del dispositivo a fianco dei suoi legali. La Corte ha anche escluso le aggravanti della crudeltà e dell'uso di sostanze venifiche (cioè sostanze tossiche che, se assunte, possono provocare la morte di una persona). La Corte ha poi condannato Internò all'interdizione perpetua dai pubblici uffici e dei diritti civili per la durata della pena. L'imputata è stata quindi condannata al risarcimento dei danni da quantificare in separata sede.

Fin qui la notizia della svolta per un caso giudiziario, che attende giustizia da 35 anni. Ancora in molti, nella Sila e non solo, ricordano le immagini del corpo di Denis (così veniva chiamato il calciatore dai compagni e dalla cerchia di persone a lui più vicina) avvolto a un lenzuolo bianco in una piazzola autostradale, a pochi centimetri dalle ruote di un camion. Una notte di autunno su cui, per molti – troppi – anni, è caduta un’ingiustificata coltre di segretezza, per lunghi periodi addirittura di disinteresse che solo il grido di giustizia della sorella dell’ex calciatore, Donata, ha contributo a ridestare.

Sì, perché questa terribile storia di provincia tratta della morte di un ragazzo che voleva sfondare nel calcio e che la Serie A avrebbe senz’altro raggiunto se tutto non si fosse fermato quella notte.

La conclusione del più grande giallo legato alla cronaca nera del calcio italiano è sostanzialmente questa: l’ex centrocampista del Cosenza trovato morto il 18 novembre 1989 sulla strada statale 106 all'altezza di Roseto Capo Spulico, non si sarebbe suicidato gettandosi sotto un camion, ma sarebbe stato vittima di un omicidio studiato a tavolino da persone a lui molto vicine. Una di queste sarebbe l’ex fidanzata.

L'udienza era cominciata con le repliche di accusa e difesa. Il primo a parlare è stato il procuratore di Castrovillari Alessandro D'Alessio. «Bisogna confrontarsi sui fatti, non sulle suggestioni, e nessuna pressione è stata fatta. Respingiamo fortemente qualunque tipo di allusione su comportamenti per legge meno che corretti. La Procura si è basata su fatti, prove, conclusioni».

Quindi è stata la volta del pm Luca Primicerio e poi dell'avvocato della famiglia Bergamini, Fabio Anselmo. Quest'ultimo si è detto «indignato per le allusioni e le tesi del complotto avanzate dalla difesa nel corso delle arringhe. La famiglia Bergamini è stata accusata di voler speculare, di avere fatto complotti non si sa con chi, quando nel corso delle fasi iniziali delle indagini ha riferito anche le dicerie su Denis». Il legale ha anche sostenuto che la storia che Bergamini si possa essere ucciso perché depresso per avere contratto l'Aids sono «tutte suggestioni. Uno dei massimi esperti in materia ha testimoniato che non c'era niente che facesse pensare neanche al contagio». E anche la tesi della difesa che un altro possibile motivo del suicidio fosse da ricercare perché inserito in strani giri dall'allora compagno di squadra Michele Padovano è falsa per Anselmo. Padovano - presente in Aula – ha detto il legale, «è una persona onesta, vittima di un'architettura calunniosa volta a farlo passare come il motivo all'origine del suicidio».

Anselmo ha concluso la sua replica rivolgendosi ai giudici della Corte d'assise: «Se Internò è innocente o colpevole lo deciderete voi, ma quello che tutti noi sappiamo è che Denis è stato ucciso». A concludere le repliche è stata l'avvocata di Internò, Rossana Cribari. «Se si dice che Bergamini è stato ucciso, dovete dire quali sono le parti esecutive del delitto. Mi dovete dire come è stato ammazzato, cosa ha fatto A e cosa ha fatto B, come ho portato il corpo sulla statale e perché nessuno mi ha visto».

La morte negò a Bergamini una carriera che, in quel momento, si stava evolvendo in un crescendo continuo. Al San Vito, la curva nel 1988 impazziva per i rossoblù di casa di cui, tra l’altro, Denis - in Calabria dal 1985 - era un beniamino. Nella stagione 1987/1988 la squadra venne promossa in Serie B sotto la guida di Gianni Di Marzio. Il Cosenza sfidò il Cagliari, appena retrocesso in terza serie: lui non giocò al San Vito, nel 2-1 silano della prima giornata, domenica 20 settembre 1987. C’era invece domenica 25 gennaio 1988, al Sant’Elia, nello 0-0 contro la squadra di Tiddia. Nell’anno seguente, in B, sempre a Cosenza, faceva parte del gruppo allenato da Bruno Giorgi, capace di classificarsi sesto e che annoverava, tra gli altri, l’algherese Bruno Caneo, il futuro rossoblù Giorgio Venturin e Michele Padovano, poi juventino, amico di Bergamini. Centrocampista moderno e abile nella manovra, Bergamini si era forgiato in Interregionale nell’Imola e al Russi: il passaggio al Cosenza fu il crocevia per la carriera di Denis nel calcio professionistico. Magari, col tempo, sarebbe arrivato in Serie A.

In Aula era presente anche padre Fedele Bisceglie, il frate plurilaureato, storico capo tifoso del Cosenza. Segno che i tifosi non hanno mai dimenticato la storia di un ragazzo che voleva soltanto sfondare nel calcio.

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