«Beniamino Zuncheddu è innocente. Forse»
Nelle motivazioni della sentenza nel processo di revisione a Roma sul triplice delitto del gennaio 1991 la Corte d’appello spiega perché a suo dire restano molti dubbi sull’estraneità del pastore di Burcei a quell’episodio. E il collegio non manca di criticare il superstite, il poliziotto che fece le indagini e anche la stampaPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Le motivazioni con cui la Corte d’appello di Roma ha assolto Beniamino Zuncheddu trentatré anni dopo la strage di Sinnai (la sentenza è del gennaio 2024) sono una doccia gelata per il pastore di Burcei e il suo avvocato Mauro Trogu. Il risultato tanto sognato, la dichiarazione di innocenza a dispetto di una decisione originaria di condanna all’ergastolo quale autore del triplice omicidio, è stato raggiunto: ma non per una reale convinzione del collegio. Anzi. I giudici hanno revocato la sentenza divenuta definitiva nel 1992 perché davanti a loro, nel nuovo procedimento, a loro dire non è stata dimostrata “oltre ogni ragionevole dubbio” la colpevolezza dell’imputato.
Incertezze
La Corte ha ancora sospetti su come realmente siano andate le cose quella sera dell’8 gennaio 1991 a Cuile is Coccus sulle montagne a ridosso di Burcei (furono uccisi Gesuino Fadda, titolare dello stazzo, il figlio Giuseppe e il pastore Ignazio Pusceddu), ma il presupposto alla base della condanna (cioè la testimonianza diretta del sopravvissuto Luigi Pinna, che aveva indicato in Zuncheddu il responsabile) è venuto meno a causa della ormai acclarata inattendibilità del superstite, protagonista di troppe versioni e giravolte tra la prima e l’ultima inchiesta sull’eccidio.
Inizialmente il killer aveva il volto coperto e dunque era irriconoscibile; poi aveva il volto scoperto e quindi era stato possibile identificarlo; quindi nuovamente aveva una calza da donna sul viso. E così via, tra incertezze e paure. Che hanno fatto crollare le fondamenta della riconosciuta colpevolezza dell’ormai ex ergastolano.
Le motivazioni
Al momento di concludere la relazione con cui si spiega il perché dell’assoluzione, i giudici elencano gli ultimi elementi alla base della decisione. Cominciando dal ruolo avuto nella vicenda dal poliziotto Mario Uda, protagonista dell’inchiesta primigenia. Il procedimento di revisione ha fatto emergere che l’investigatore aveva «imbeccato» il superstite spingendolo a indicare proprio Zuncheddu quale responsabile del triplice omicidio (gli fece vedere la foto del pastore di Burcei prima del riconoscimento ufficiale da tenersi davanti al pm), ma non si può essere certi, oggi, «che quell’informazione fosse sbagliata, perché non è stata raggiunta alcuna prova sicura sull’innocenza» dell’imputato «e dunque sulla sua totale estraneità» alla mattanza.
Tuttavia quell’informazione, «vera o falsa che fosse, se non fosse stata suffragata dalla deposizione dell’unico testimone oculare», cioè Pinna, «non avrebbe potuto condurre a una condanna perché il processo» del 1991 «era meramente indiziario». Il racconto del sopravvissuto «fu invece una prova diretta fondamentale e difficilmente superabile» sulla responsabilità di Zuncheddu, che «non aveva animali e dunque poteva essere allettato dalla promessa di riceverne un po’ come compenso»: una delle tesi emerse oltre trent’anni fa.
Certo le modalità della strage «escludono che gli omicidi siano stati portati a termine da una sola persona». I Fadda nell’ovile «avevano armi da fuoco» ma il giovane Giuseppe non fece in tempo a prenderne una «pur udendo lo sparo contro il padre», quindi «è verosimile che il commando fosse composto da almeno due persone». Lo stesso Pinna «disse di aver udito due spari» e di aver sentito Pusceddu dire al ragazzo «stanno ammazzando tuo padre». Ma che avessero agito più assassini era un’ipotesi «ventilata già all’epoca e che comunque non avrebbe inciso sulla posizione di Zuncheddu, il quale al più avrebbe agito con dei complici».
Ancora. Che l’ex ergastolano avesse una «malformazione congenita» al braccio destro, impedimento tale da rendergli «difficile l’uso del fucile», per i giudici può essere letto addirittura come un indizio a suo carico. Perché? «Il perito in primo grado disse che l’imputato» non era impossibilitato a usare quel tipo di arma perché, nonostante una massa muscolare inferiore a quella sinistra, la parte destra era «in grado di compiere tutti i movimenti»; inoltre va «tenuto conto che il fucile da caccia, pesante 3 o 4 chili, va mantenuto con entrambi gli arti superiori»; infine l’aver «mancato per due volte Pinna nonostante la vicinanza», tra killer e vittima, «mal si concilia con le capacità di un buon tiratore», mentre quel fallimento «troverebbe qualche spiegazione proprio nella malformazione» lamentata da Zuncheddu in quanto «il cecchino non è riuscito a uccidere un uomo alla portata dell’arma colpendo la spalla anziché il cranio» e dunque «mostrandosi alquanto maldestro». Insomma, l’episodio è visto come un «elemento di conferma» della tesi «accusatoria».
Messi tutti assieme questi elementi, la Corte d’appello di Roma giunge a questa conclusione: l’Assise di Cagliari nel 1991 aveva a disposizione «una serie di indizi pregnanti ma non sufficienti» per arrivare alla condanna; però a questi indizi si aggiungeva la «testimonianza diretta del sopravvissuto», un racconto «decisivo: non poteva essere altrimenti». Quella versione, solo quella, fu alla base dell’ergastolo.
La giravolta
Nel processo di revisione però il superstite ha cambiato racconto, giravolta che ha lasciato molti dubbi nei giudici e di cui tuttavia è impossibile non tener conto.
Pinna «è apparso non solo e non tanto desideroso di raccontare la verità», sostiene il collegio nelle motivazioni, «quanto piuttosto di compiacere» le persone presenti in quell’aula di Roma, tanto che la relatrice ha sottolineato come il processo si sia svolto «con un notevole clamore mediatico e la presenza di un nutrito pubblico non coinvolto direttamente». Una volontà di andare incontro a questi presunti desiderata tale da spingere Pinna «a ritrattare non solo quanto detto nel procedimento del 1991 ma anche quanto disse in ambulanza ai carabinieri, sostenendo che non era vero che l’aggressore aveva il volto travisato. Ma in questo caso allora aveva davvero visto l’assassino in volto. Una notevole contraddizione».
La giravolta convince la Corte che i primi giudici avessero sbagliato nel basare parte della sentenza sulla presunta solidità morale del superstite. Per l’Appello di Roma infatti non c’è «nessuna personalità ben strutturata di Pinna», persona definita dalla nuora «docile, pronta a compiacere la consorte e in generale gli interlocutori». Il testimone piuttosto è un «gregario, più desideroso di eseguire le direttive a lui impartite da altri che non di effettuare le proprie scelte in autonomia».
La sua «personalità è alquanto incerta, inaffidabile e precaria», come dimostrerebbe il suo aver «mutato via via le proprie versioni», comportamento «superficiale». La sua ritrattazione «non è frutto di una resipiscenza spontanea» e «la sua deposizione è contraddittoria e confusa». In fin dei conti «potrebbe essere che ancora oggi» il testimone «sia convinto della colpevolezza di Zuncheddu», ma in ogni caso la sua incertezza lo rende inattendibile.
Dunque, «venuta meno» questa «prova fondamentale», restano «residui indizi non sufficienti per confermare la sentenza oltre ogni ragionevole dubbio». Così l’assoluzione arriva «non perché si è raggiunta la piena prova dell’innocenza» dell’imputato «ma perché il quadro indiziario di per sé non è sufficiente ad affermarne la colpevolezza».
Per la Corte capitolina «residuano delle perplessità sulla sua effettiva estraneità alla strage commessa verosimilmente da più di un soggetto, uno dei quali non era un cecchino provetto, come pare fosse Antonio Maria Corria», cioè il bandito indicato quale possibile responsabile nella richiesta di revisione depositata dal legale Trogu e dall’ex procuratrice generale di Cagliari Francesca Nanni, «non riuscendo nell’intento nemmeno dopo aver sparato due colpi a distanza ravvicinata». Il pastore di Burcei inoltre «fornì un alibi sostenuto da due tesi falsi che», tra l’altro, parlarono «tardi» di «un incontro casuale» con Zuncheddu al centro del paese proprio nelle ore della strage: episodio «emerso solo nell’agosto 1991 e che si poteva rivelare il giorno dopo gli omicidi».
Giornalisti impiccioni
Il processo di revisione si chiude di fatto qui, con due sole postille: una delle quali foriera di ulteriori sviluppi investigativi e una no. Quest’ultima è una critica neanche tanto velata all’interesse giornalistico suscitato da un caso obiettivamente clamoroso: la Corte ritiene che, a distanza di oltre trent’anni dagli omicidi, una ormai «esile speranza di pervenire a una ricostruzione veritiera e attendibile è stata gravemente pregiudicata dalla forte attenzione mediatica sulla vicenda», perché sarebbero state «divulgate disinvolte ricostruzioni dei fatti arricchite da discutibili commenti, giudizi personali, congetture, valutazioni unilaterali prive del dovuto contraddittorio che hanno inciso sulla genuinità dei testi»; la prima invece è la decisione di trasmettere alla Procura di Roma gli atti riguardanti le testimonianze rese in aula da Paolo Melis, Daniela Fadda e Mario Uda perché gli inquirenti valutino l’eventuale ipotesi di una falsa testimonianza.
Da quel giorno però, convinta o no la Corte, Zuncheddu è un uomo libero. Assolto col dubbio, ma assolto.
16) Continua
