Alla corte degli Arborea il vino Vernaccia era certamente conosciuto. Se fosse quello prodotto da uve allevate nelle terre giudicali o un vino chiamato allo stesso modo in arrivo dalla Penisola, al momento, non si può dire. Le documentazioni storiche dirette mancano e non ci sono fonti, per ora, che possano sciogliere il dubbio. Tuttavia è molto plausibile che i Giudici d’Arborea avessero in qualche modo una familiarità con il vino Vernaccia. Numerose attestazioni di epoca medievale e tardomedievale identificano infatti la Vernaccia come un vino molto richiesto e apprezzato prodotto nei territori di Vernazza e Corniglia, antichi borghi oggi località delle Cinque Terre. Va quindi ricordato lo stretto legame tra le dinastie degli Arborea e la potente famiglia dei Doria, antichi signori di Genova dove il vino di Vernazza era richiesto e conosciuto. Non solo, la nonna di Brancaleone Doria figlio, marito di Eleonora d’Arborea, era tale Eleonora Fieschi, nobildonna appartenente alla ricca famiglia ligure che dominava la Riviera di Levante compreso i grandi vigneti delle Cinque Terre, prima che Genova ne prendesse il pieno possesso. Il vino di Vernazza che già dagli inizi del XIII secolo aveva conquistato la confinante Toscana e gran parte dei Paesi del Vecchio continente, potrebbe aver fatto la sua apparizione anche nelle corti dell’Isola, in quegli anni spartita tra Genova e Pisa con molti interessi della Corona Aragonese. C’è un altro dettaglio. Il Breve di Villa di Chiesa, il codice di leggi della città medievale di Iglesias, riporta la più antica attestazione scritta in Sardegna, al momento, della parola Vernaccia. Il testo risale ai primi decenni del XIV secolo, 1327, ma il nucleo originario del codice è certamente precedente. Nel secondo Libro, al Capito 46 si danno una serie di disposizione a "vinaiuoli et vinaiuole" su come deve essere venduto il vino nel rispetto di chiare procedure per evitare truffe e imbrogli.

Breve di Villa di Chiesa (L'Unione Sarda)
Breve di Villa di Chiesa (L'Unione Sarda)
Breve di Villa di Chiesa (L'Unione Sarda)

LA STORIA La Villa mineraria era sotto la dominazione pisana per mano della dinastia dei Donoratico, Ugolino e Gherardo della Gherardesca, ricompensati con il dominio di una parte del Giudicato di Cagliari dopo la vittoria a Sant’Igia nel 1257-58. Villa di Chiesa sorge nella seconda metà del XIII secolo e dal 1283 conosce un crescente sviluppo proprio sotto la sudditanza della nobile famiglia pisana dei Donoratico della Gherardesca. A questo periodo risale il primo codice legislativo della città voluto appunto dal conte Ugolino (morirà nel 1289) molto interessato alle ricchezze minerarie dell’Iglesiente. Il Constituto, citato 4 volte nel codice giunto sino a noi, fu tramutato in Breve nel 1303 dal capitano messere Bacciameo quando Villa di Chiesa passò sotto la diretta gestione pisana. Una seconda revisione fu affidata l’anno successivo a 4 brevaiuoli; Andrea Gatti, Betto Alliata, Giovanni Cinquini e Ranieri Sampante, col notaio Nocco di Castiglione. Il 7 febbraio 1324 Villa di Chiesa cede agli aragonesi e l’8 giugno 1327 Alfonso IV d’Aragona confermò la validità normativa del Breve. Si sostituì però dove era riconosciuta la posizione sovrana del Comune di Pisa, il nome del re aragonese.

DELLI VINAIUOLI Il passo tratto dall’ampio Capitolo 46 così recita: "E non debbiano né possano tenere a mano piò di una botte de uno vino, ma sì divisi vini, cioè una di varnaccia, una di greco, una di vermiglio, et una di brusco bianco che fusse facto fuora di Sardigna, et una di vino sardisco". Dunque la varnaccia appare all’inizio di un elenco di vini molto conosciuti all’epoca probabilmente anche in certe corti dell’Isola, sicuramente tra le potenti e ricche famiglie della Toscana. Per greco in genere si intendevano quei vini robusti, ad alta gradazione alcolica e dolci. Erano le Malvasie dell’epoca che arrivavano, quasi certamente fortificate per superare i tempi lunghi del viaggio, dai Paesi del bacino sud orientale del Mediterraneo, molto apprezzati nella Penisola e nel continente europeo. Il Vermiglio invece era un vino molto diffuso in Toscana. Tra i tanti documenti che attestano l’esistenza di questo vino, è interessante una nota spese del Provveditorato dell’Opera di Santa Maria del Fiore,  siamo tra la fine del Medioevo e i primi decenni del Rinascimento, che attesta: «A dì 7 d’aghosto lire 3 soldi 9 denari 4 per uno barile di vino vermiglio e uno fiascho di trebiano e pane e poponi per una cholezione si fe’ la mattina che si chominciò a murare la chupola». Il documento è conservato negli Archivi dell’Opera di Santa Maria del Fiore a Firenze. Il 7 agosto 1420 per l’avvio della muratura della cupola di Filippo Brunelleschi, l’Opera offre una colazione alle maestranze impegnate nella gigantesca costruzione. Dunque il Vermiglio era un vino molto comune in Toscana, meno pregiato del Trebbiano visto che per la colazione delle maestranze si acquista solo un fiasco di quest’ultimo e un intero barile di Vermiglio. Certamente anche meno nobile del vino Varnaccia e del Greco, citati appunto nel Breve in un ordine che si potrebbe dire basato sulla qualità delle 5 tipologie. Il Brusco ("non fatto in Sardegna", precisazione che autorizza a ipotizzare che vi fossero delle località sarde in cui veniva prodotto un vino chiamato ugualmente Brusco, ma non di quello vuole trattare il Breve) era un antico vino bianco ottenuto in percentuali differenti da uva Malvasia e uva Trebbiano vendemmiate con qualche giorno di anticipo. I grappoli venivano fatti appassire. Si pressavano e il mosto, senza bucce, veniva fatto fermentare nelle botti. Il Brusco era un vino di circa 12 gradi, di colore giallo carico, fruttato e sapore asciutto. Il Sardisco, infine, ultimo dell’elenco e probabilmente il meno pregiato dei cinque, era il vino generico prodotto da uve sarde non tipicizzate come spiega la studiosa Barbara Fois nella pubblicazione "La vite e il vino nell’Arborea giudicale (secc. XI-XIV)" «Il «vino sardescho» di cui parlano documenti non sardi (almeno di ispirazione, come il Breve di Villa di Chiesa, ad esempio è escluso che fosse malvasia o vernaccia, già menzionati insieme negli stessi testi, ma era certamente quel vino nero, spesso, detto «nieddera» nel Campidano, fatto di varie uve nere, indistintamente pigiate e vinificate insieme. Siamo comunque molto lontani dall’avere dati attendibili, né mai li avremo se gli scavi archeologici non prenderanno in seria considerazione anche il paesaggio agrario, oltre che gli insediamenti urbani d’età medievale». Dunque nell’elenco del Breve, la Varnaccia appare come primo vino di una lista che solo alla fine contempla una tipologia di vino sardo. L’interrogativo dunque resta: di quale Vernaccia parla il Breve? Si può ipotizzare che fosse la stessa prodotta nel Giudicato di Arborea? Oppure è una Vernaccia allevata nell’Iglesiente o, meglio, un richiamo al vino toscano di San Gimignano, molto diverso dalla Vernaccia di Oristano, vino ossidativo.

L’ETIMOLOGIA I numerosi interrogativi sulla storia della Vernaccia potranno avere una risposta esaustiva solo dalla documentazione e dalla ricerca storica su cui ancora però c’è molto da fare. Affidarsi all’etimologia della parola Vernaccia aiuta certamente ma non chiude i dubbi e i misteri. Dalle varie ipotesi avanzate da linguisti, storici e glottologi emerge un generico disaccordo sull’origine del nome. In sintesi: l’ipotesi può accreditata da fonti e documentazioni storiche fa risalire il termine Vernaccia da Vernazza, la cittadina ligure sulla Riviera di Levante, uno dei borghi delle Cinque Terre. L’ipotesi più popolare parla invece di un’origine latina, da vernacula, ovvero vini unici del luogo. Oggi in Italia esistono solo pochissime tipologie di Vernacce, tutte molto differenti tra loro: la Vernaccia di Oristano Doc, la Vernaccia di San Gimignano Doc e Docg, la Vernaccia di Serrapetrona, un vino spumante rosso Docg delle Marche, ottenuto dal vitigno autoctono Vernaccia Nera. E infine Colli Martani Vernaccia, un passito rosso Doc prodotto nella zona di Perugia. Quest’ultimo vino potrebbe giustificare una terza ipotesi sull’origine del nome, quella però meno accredita dagli studiosi che vede l’etimo della parola Vernaccia derivare dal latino Vernum, dunque uva lavorata d’inverno dopo l’appassimento di alcuni mesi. L’ultima ipotesi, la più affascinante, è quella dell’etimologo Salvatore Dedola: secondo cui deriverebbe dall’accadico beru(m) + naqû, ovvero "versare" vino in libagione, durante un sacrificio. Il nome significherebbe quindi vino di classe scelto per libazioni o sacrifici. L’indagine è solo agli inizi.

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