«Io un artista? Ma no, quella è una parola un po’ romantica, un titolo che ti danno gli altri. Non sono un tecnico, creativo sì, invento musiche, scrivo testi, e spero di farlo sempre in modo positivo». Tristano Pala, 39enne cagliaritano, vive a Berlino da anni e nella capitale tedesca ha trovato la strada per esprimere se stesso sotto molti punti di vista. La carriera della musica è quella che ha scelto di percorrere anche se, sottolinea, «non credo al talento. È sopravvalutato. La musica è un’attività umana molto completa e c’è tanto di più».

Nome di battesimo ispirato al mondo letterario, «mio padre è un appassionato lettore di libri», lo ha scelto anche per la sua carriera: «In fondo è piuttosto singolare, non dico unico, e poco confondibile».

Studi al Conservatorio di Cagliari, suona il flauto, la chitarra, e una base di tastiera che gli serve per comporre. In passato ha collaborato con grandi nomi come Alma Mediterranea e Balentia.

Come descriverebbe la sua musica?

«Molto positiva, è uno dei sentimenti che più mi piacciono. Da poco ho ricevuto un complimento che mi ha reso molto orgoglioso: una persona che affrontava un momento difficile mi ha detto di aver sentito un mio pezzo e di aver provato delle emozioni forti. Ecco, trasmettere e risvegliare emozioni è qualcosa di importante. Non è necessario darsi un ruolo per forza: ad esempio “devo essere allegro”, la musica deve esprimere quello che sei e su certe cose non puoi decidere a tavolino».

Quando ha iniziato questo percorso?

«Mi sono sempre dedicato a fare una musica tutta mia. E mi autoproduco. Avevo un gruppo, i Fun Key, abbiamo suonato insieme per molto tempo dal 1999. Facevamo un genere che univa funk e annessi, hip hop, rock, con testi in italiano».

Poi ha scelto la carriera solista.

«Sì ma in mezzo c’è stato un passaggio: ci siamo trasferiti tutti a Berlino, e abbiamo raggiunto anche buoni risultati, ma poi ci siamo sciolti e ho fondato un altro gruppo di musica originale in inglese, The Hoo. Io cantavo e suonavo il flauto. Eravamo più jazz, soul, meno rock e con un misto di elettronica. La band è andata avanti dal 2011 al 2018».

E dopo?

«La pandemia alla fine ha fermato tutto, per la musica non è stato un gran bel periodo. Ero chiuso in casa e mi sono detto: questi due gruppi erano un po’ una famiglia per me, come aver avuto due mogli e aver divorziato due volte. Quindi ho deciso: non mi sposo più. E ho registrato un album, “My 1st 3”, con 9 tracce, come genere sempre un po’ funk, che è nel mio Dna, ma con qualcosa di più moderno, anche note elettroniche e R&B».

Ora cosa fa a Berlino?

«Vivo di musica, do lezioni, seguo progetti, lavoro molto con i bambini, e collaboro con un teatro, una piccola compagnia, Zenobia Theatre, sul palco ci sono le musiche che io compongo, e intanto suono, mentre gli attori recitano».

Tristano Pala al flauto (foto concessa)
Tristano Pala al flauto (foto concessa)
Tristano Pala al flauto (foto concessa)

Non le manca Cagliari?

«Ma qui, a parte il freddo, ci sono tanti stimoli sul fronte dell’arte. Dopo la caduta del muro era tutto da ricostruire e il risultato è stato più che buono».

Ci sono dei messaggi che vuole lanciare con la sua musica?

«Ho provato a farlo in passato con canzoni di protesta, d’amore. Adesso sono solo me stesso, non mi faccio portatore di messaggi: non sono un politico ed è anche pericoloso schierarsi perché ti precludi una certa parte di pubblico. E io non penso che la musica abbia questo ruolo. Apertura mentale sì, far star bene le persone anche, il resto no».

Si può vivere di musica?

«Sì e anche più di prima. Questa è una tematica con cui mi sono scontrato per anni, la preoccupazione sul fatto che non si potesse fare è presente soprattutto in Italia dove ti senti dire “ma cercati un lavoro serio”, e questo ti allontana dall’obiettivo. Se vuoi migliorarti facendo il musicista sviluppi competenze che poi riuscirai a sfruttare. Ovvio che a 18 anni non vedi tutto questo».

Oggi, come ha detto qualcuno, tutti possono fare musica. È davvero così?

«Sì. Non credo nel talento. È sopravvalutato: la musica è un’attività umana molto completa e c’è tanto di più. Prendiamo ad esempio Fabrizio De Andrè, ha creato musica bellissima, ma è un talento musicale? Al pari di Mozart? Di Miles Davis? O Jovanotti: è tutt’altro che un talento. Eppure fa il cantante, ma conosco molta gente che invece non riesce a esprimersi. Il talento aiuta ma ci dev’essere molto altro».

E gli “improvvisati”?

«Eh sono tanti. Oggi è talmente facile creare della musica che puoi prendere dei loop e montarti tutto da solo. In realtà non sai fare niente. La storia dimostra che se prendi una chitarra e sai fare due accordi puoi suonare. È così che i giovani si sono appropriati della musica. Il pop di oggi vorrebbe essere così. Tutti possono fare musica ma c’è differenza tra chi ha un messaggio da dare – anche se non è tecnicamente preparato – e chi si improvvisa e oltretutto non ha molto da dire».

Il problema allora è il business.

«Certo, le grandi industrie fanno credere a chiunque di essere un grande musicista e lo “vendono” alla gente. Insomma ci sono di mezzo i soldi. Si sfrutta l’immagine di una persona, magari avvenente o con caratteristiche fisiche particolari, le mettono di fianco dei musicisti bravi, e il fenomeno nasce. Se aggiungiamo che poi i social hanno un gran peso, il gioco è fatto. In due giorni diventi famoso, pur non avendo alcun valore».

La copertina dell'album (foto concessa)
La copertina dell'album (foto concessa)
La copertina dell'album (foto concessa)

Com’è l’ultimo suo album, “My 1st 3”?

«Nove tracce, quattro sono i singoli con altrettanti video Youtube. Sono pezzi diversi tra loro ma legati da un nesso. Per esempio in tutti ci sono melodie in bilico fra allegria e forte malinconia. E poi c’è anche il progetto di rifare le musiche di famose serie tv, come quella già pubblicata che ricalca la sigla dell’ispettore Derrick».

Altre idee da realizzare?

«Sto collaborando con Sacalabolseta: è il regista di queste ultime produzioni, un videomaker nonché un caro amico e mi fa anche da consulente d’immagine. Penso che le collaborazioni portino ad avere sempre idee più ricche, dal confronto nasce il meglio. È sardo ma ho la fortuna di averlo spesso a Berlino perché è una città che gli piace».

Nei video c’è un sapore un po’ “vintage”. O no?

«Molto vintage ma nel vero senso del termine: Sacalabolseta utilizza davvero strumenti che consideriamo d’epoca, super 8 e vhs del 1990 ad esempio».

Mai pensato di partecipare a un talent?

«No, anche se mio padre me lo chiede almeno una volta alla settimana. Non mi piacciono, non ne ho mai guardato uno per più di un minuto, penso che se andassi non sarei a mio agio. Non sarei io».

© Riproduzione riservata