Dalla Sardegna all’America. Con andata ma senza ritorno. E anche senza troppi rimpianti.

Quando Natalino Scalas è arrivato in California era il novembre del 1969. Non parlava una parola d’inglese: «Nemmeno “hi”, ciao. Avevo frequentato la scuola fino alla quinta elementare ad Assemini e spesso mi assentavo perché mio padre aveva bisogno di aiuto nell’orto. A tante lezioni sono mancato. Per questo nemmeno il mio italiano è perfetto», racconta oggi che ha quasi 78 anni.

E a Lakewood, in California, ha costruito la sua famiglia: moglie, due figli e sei nipoti. L’emigrazione non è stata una scelta ragionata, più che altro l’alternativa a una vita senza infamia e senza lode. Il giardino della sua casa americana «sembra un salotto, non c’è una foglia fuori posto», del resto «la tv mi annoia, e allora mi dedico anche al volontariato».

Cosa faceva prima di partire?

«Il disperato (ride). Mio padre ha capito che non volevo più studiare e mi ha detto “è meglio che impari un mestiere”, quindi ero andato prima a fare l’apprendista in una barberia, poi ne ho aperto una mia».

Le piaceva?

«Era un disastro, soprattutto perché non lo avevo deciso io. Alle 6 del mattino arrivavano i vecchietti, si sedevano sui gradini e mi aspettavano. Venivano per fare la barba una volta a settimana: la rasatura costava 150 lire, un taglio di capelli 350. Impiegavo più tempo con gli anziani che con i giovani – compresi shampoo e prodotti vari che andavano di moda all’epoca -, quindi guadagnavo proprio poco. Non lo sopportavo».

Ha chiuso bottega?

«Un mio fratello era già negli Usa: “Vieni qui che i soldi si trovano per terra”, lui era già a Lakewood, nella Contea di Los Angeles. E alla fine l’ho raggiunto».

Com’è stato l’impatto con la vita a stelle e strisce?

«Le dico solo che dopo 5 mesi avevo già fatto il biglietto per tornare in Sardegna».

Avventura finita?

«Venti giorni prima di quella data ho conosciuto una famiglia siciliana. E c’era anche una ragazza, Carmelina. Per quelle tre settimane siamo usciti insieme – sempre accompagnati e mai da soli -, un cinema, una passeggiata. Loro soffrivano molto la lontananza dall’Italia, si figuri che quella che poi è diventata mia suocera ha pianto per due o tre anni. L’America sa essere cattiva».

E Carmelina non era una ragione per restare?

«In quel momento no, ho fatto i bagagli e sono rientrato ad Assemini. Mi sono messo d’impegno per riaprire la barberia, e mi sono anche confidato con mia madre: pensavo sempre a quella ragazza, eppure la conoscevo pochissimo. Mia mamma mi ha consigliato di tornare in California. “Ma Carmelina non credo sia lì ad aspettare me”. E mamma: “Toca, torra a andai”».

Com’è finita?

«Che il 18 dicembre abbiamo festeggiato 52 anni di matrimonio».

Il lavoro?

«Cose saltuarie, ho fatto anche l’autista di un miliardario così tirchio ma così tirchio…».

Cosa ricorda?

«Era uno che amava il gioco d’azzardo, molte volte lo portavo a Las Vegas. Non dormiva la notte per ritagliare i buoni sconto. Un giorno mi fa fermare davanti a uno shopping center, entra nel negozio ed esce con un hot dog e 25 centesimi. Rientra ed esce di nuovo con una parrucca e 25 centesimi. Poi mi dà un coupon: “Vai tu”. Torno in macchina con un hot dog e 25 centesimi. “Bene, mangiati il panino e dammi i 25 centesimi”. Non potevo crederci. Eppure i soldi non gli mancavano: suo padre gli aveva lasciato 240 appartamenti e ogni mattina andavamo in banca a depositare sacchi di monete, quelle recuperate nelle lavanderie condominiali».

Nel frattempo aveva imparato l’inglese?

«Mi ero iscritto a una scuola serale. Inglese per messicani. Non c’era per italiani. Il primo giorno un insegnante mi chiede: “Si hablo español me entiendes?”. Ho pensato: “Ma parla in sardo?”. Lo capivo benissimo. Questo è stato un grande vantaggio».

Perché la sua lingua lei nemmeno oggi l’ha dimenticata…

«Quando sono a casa da solo e Carmelina è al lavoro, vuol dire cinque giorni su sette, chiamo tutti i parenti e gli amici in Sardegna, a turno. E voglio usare solo il sardo. Ecco perché non l’ho mai perso, anche se non è come una volta. Mentre quando parlo inglese, qui in California, l’accento italiano si sente tantissimo, non sa quante volte mi dicono: “What?”, perché non mi capiscono».

In questi decenni di emigrazione è tornato spesso ad Assemini?

«Una ventina di volte in tutto. Ma mia moglie non ci vuole più andare».

Perché no?

«Dice che non le ho mai fatto visitare le bellezze dell’Isola: spiagge, archeologia, la natura, i paesaggi. “Mi porti lì e devo baciare cento volte le stesse persone”, un po’ ha ragione. Ma si sa come va: quando torni in paese ci sono i parenti, gli amici, e ti sequestrano, in senso buono ovviamente. Pranzi, cene, non hai tempo per andare altrove, ti avvolgono con tutte le loro attenzioni. In Sicilia siamo riusciti a girare molto di più. L’accoglienza invece in entrambe le regioni è stata sempre fatta di grandissimo affetto».

Qualcosa le mancherà della Sardegna…

«Il passato non esiste più, ma sono ancora aggrappato a quei ricordi, a certi istanti che a volte mi impediscono di vivere il mio meraviglioso presente. Mi piace viaggiare, vado spesso in Messico a pescare. Per l’anno prossimo abbiamo programmato con i miei cognati una crociera sul Danubio. Dalla Sardegna mi hanno già avvisato: “Sei in Europa e non vieni da noi?”».

I giovani di oggi fanno bene a partire e a lasciare l’Isola?

«Sì, c’è una cosa che voglio dire: ne ho conosciuto tanti che arrivano in America pensando di fare carriera senza gavetta. Per esempio, nel settore della ristorazione, non vogliono cominciare come lavapiatti. Ma devi iniziare dal basso per andare avanti. Poi c’è stato anche chi ha aperto il suo ristorante e si è dato alla bella vita, vacanze eccetera, invece di lavorare sodo. E lasciando la gestione al manager, che gli ha fatto sparire i soldi. Oppure ancora quelli che sposano le asiatiche che puntualmente li lasciano».

In che senso?

«Noi sardi abbiamo la testa dura e le americane non ci sopportano. Le donne asiatiche sì, e tante volte sono loro a volere il matrimonio per avere la cittadinanza. Alla fine anche loro si stancano».

E le donne sarde in America?

«Hanno più pazienza».

Con sua moglie parla in italiano?

«Sì, anche con mia figlia Cristina. Con Giovanni quasi solo in inglese, ma entrambi sanno tutte le parolacce in sardo, un classico insomma».

Qualcosa della sua tradizione che cucinate in casa?

«Il maialetto qui è impossibile da trovare. Quello messo in vendita deve pesare almeno 300 chili. Gli allevatori non hanno interesse a piazzare quelli piccoli, non ci guadagnano niente. Oppure propongono prezzi inavvicinabili. Compro il capretto, ma è tutta un’altra cosa rispetto a quello sardo. In compenso Carmelina sa fare le panade, gliel’ha insegnato mia madre. Per il resto troviamo il vino sardo e la bottarga al supermercato».

Insomma non tornerà a vivere nella sua Assemini?

«Ma no, ormai la mia vita è qui. Là c’è stata la spensieratezza, con gli anni della giovinezza, e questo non si cancellerà mai. Continuo a telefonare agli amici, ai parenti, scambiamo quattro chiacchiere in sardo. Mi basta questo per tenere quel filo invisibile con la mia terra».

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