Sono più di 100mila in Italia le persone soffrono di una malattia “senza nome”. Sono casi di sindromi non diagnosticate perché senza una causa nota oppure perché, mancando la diagnosi genetica, non c’è la possibilità di associare a un quadro patologico una determinata anomalia del genoma già nota.

I malati chiedono supporto clinico e nel quotidiano, il riconoscimento da parte delle istituzioni, avere accesso a esami genetici completi (con il sequenziamento dell'intero genoma), avere una diagnosi e uscire dal vuoto totale che pesa come un macigno e crea solitudine.

A raccontare i bisogni di questo mondo è Federico Maspes che ha fondato Hopen, per aiutare le famiglie che, come lui, vivono il dramma dei “senza nome”.

Se già l'iter diagnostico dei malati rari è di per sé un'odissea fatta di ripetuti esami, ricoveri e visite specialistiche in diversi centri, con un ritardo medio nella diagnosi di circa 5 anni e una sbagliata in un caso su tre, per un “senza nome” si trasforma in un calvario.

«Nel caso di nostra figlia Clementina - racconta Maspes - ci sono voluti 28 anni e visite in Italia e all'estero prima di approdare alla diagnosi, una delezione sul cromosoma 4». Una risposta importante viene dai nuovi strumenti di analisi genetica e genomica (NGS, Next Generation Sequencing), che grazie alla rivoluzione tecnologica degli ultimi 20 anni consentono oggi di ottenere un'enorme quantità di informazioni sul patrimonio genetico individuale e familiare.

(Unioneonline/s.s.)

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