D ue giovani, diciotto anni o giù di lì, cambiano strada quando si accorgono che la ragazza sul marciapiede davanti a loro accelera. Non hanno fatto niente eppure hanno capito la paura delle donne, da bambine fino a sempre. Il video che hanno postato su TikTok è uno dei pochi che ci riconcilia col mondo social in questi giorni di choc per lo stupro di massa, i femminicidi camuffati da suicidi, le sentenze che certificano la violenza ma distinguono tra consapevolezza e fraintendimento (degli imputati, quel che pensa la vittima nel processo non rileva) insieme al bacio rubato in mondovisione alla campionessa. Per il resto la Rete continua a mostrare il peggio. La foto del branco che porta la ragazza verso il luogo della violenza ha scavato in ognuno di noi un senso di angoscia profondo, così come le frasi tremende che, dopo, si sono scambiati gli aguzzini. Ma se è giusto che le cronache diano ampio risalto a un fatto gravissimo, quel che accade sui social è agghiacciante: centinaia di ragazzi e ragazze divulgano una combo con foto, nome ed età degli indagati col preciso scopo di indicarli come obiettivo di disprezzo o vendetta. In un Paese democratico che si vanta di essere stato la culla del diritto non può accadere.

Non vale neanche pensare che tanto è tutto virtuale perché si fa presto a tracimare nel reale, lo abbiamo visto di recente: il tentativo di sfondare la porta di casa dell’investitore del ragazzino; la devastazione dell’appartamento del giovane accusato di aver ucciso l’amica; il pestaggio collettivo della borseggiatrice. .

S ono segnali di una società che non crede più nella giustizia. E, sinceramente, davanti a certi provvedimenti, si resta perplessi. Il minorenne dell’aggressione palermitana, per esempio, scarcerato perché ha confessato. Va bene la presunzione di innocenza, ma qualcosa gliela si dovrà pur far capire: il pentimento è un processo lungo, implica l’aver capito il male fatto e poi, solo poi, le scuse. Una resipiscenza, per usare il linguaggio giuridico, così veloce lascia spazio a molti dubbi, non a caso in tanti si sono esercitati in post fake che festeggiano.

Ma succede perfino di peggio, e cioè che si vada a caccia del nome e della foto della vittima taciuti da tutti i mezzi di informazione, giustamente, come sempre per questo tipo di reati: è iniziata la fase due della violenza su quella ragazza, e chiunque guarda, commenta e clicca deve sapere che è complice.

Quando pensiamo di aver toccato il fondo ecco Telegram, con migliaia di iscritti pronti a barattare foto rubate dal buco della serratura di madri-sorelle-compagne col video dello stupro di Palermo. Hai voglia di parlare di educazione sentimentale e sessuale se tanto nessuno ti ascolta e l’unica formazione sono le chat porno. Potrebbe funzionare il monologo di Luciana Littizzetto che in questi giorni gira a manetta (“se una donna ti dice no è no, anche se prima di te ad altri 99 ha detto sì”). Forse bisogna usare gli stessi strumenti per proporre una nuova visione dei rapporti sociali. Contare sulla famiglia è complicato dopo aver sentito la madre di uno dei sette di Palermo attaccare la vittima, o dopo aver letto dei genitori della ragazzina di prima media bocciata all’unanimità dal consiglio di classe per sei insufficienze, pure gravi, che hanno fatto ricorso al Tar (vinto). Ecco, la scuola potrebbe fare molto, ma dovrebbe essere libera da interferenze, familiari e legali.

Che fare? È difficile ma non ci si può arrendere. Allora proviamo a ricominciare daccapo, dall’abc, ossia: le persone. Cominciamo noi adulti. Abbassiamo i toni, in ufficio come in tv, in politica come al market. Ascoltiamo le ragioni altrui. E rispettiamo tutti, a cominciare dalle donne, la mascolinità non è mai sopraffazione. Cambiamo la narrazione con i comportamenti. I nostri. Chissà che qualche giovane non ci segua. E possa continuare a camminare sullo stesso marciapiede della ragazza senza che questa abbia paura.

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