L ’autunno dell’oligarca si sta colorando di una tinta rosso cupo, in uno scenario da cupio dissolvi. Vladimir Putin vacilla, risponde al colpo di stato e all’insurrezione della sua agenzia mercenaria preferita - la Wagner - con un discorso aggressivo ma fragile. Questo non può certo dispiacere, perché nessuno, tra quelli che amano la libertà, può avere simpatia o rimpianti per un dittatore sconfitto. Tuttavia la recente storia della Libia, dopo la caduta del regime verde, ci ha dimostrato che anche il crollo di un dittatore può avere una conseguenza peggiore della situazione che lascia.

V ale a dire la proliferazione virale di piccoli dittatori e grandi signori della guerra, il tutti-contro-tutti senza uno scenario di garanzia e sicurezza che possa garantire l’incolumità del mondo. In una parola, lo scenario peggiore: la balcanizzazione della parte del pianeta dove albergano ancora oggi seimila testate nucleari innescate. In Libia, nel 2011, la cupezza sanguinaria e tribale di questo esito ebbe come epilogo la flagellazione di Gheddafi, e la guerra per bande a sfondo petrolifero. Ma nell’area russo-Ucraina, l’esplosione dell’equilibro bellico di questo ultimo anno ha come palinsesto la geografia degli armamenti nucleari, la guerra per il loro controllo: ovvero una ipotesi da incubo. Evgenij Prigožin, l’uomo che ha avviato la destrutturazione armata dell’impalcatura fragile del putinismo crepuscolare, ha un suo obiettivo preciso, megalomane ma possibile: ritagliarsi un piccolo stato nucleare indipendentista e mercenario fra Russia e Ucraina. E poi coltiva un sogno: portare a termine il colpo di stato in patria, diventando il deus ex machina del regime change a Mosca. Vladimir Putin è chiuso nell’angolo, nei panni del probabile perdente, ma questa condizione potrebbe non impedirgli una mossa disperata, un missile tattico contro uno dei suoi nemici. Gli ucraini, che non erano riusciti nella loro controffensiva d’estate, adesso sono nella possibilità di fare una scelta che apre due scenari: attaccare Zaporizhzhia, per lo sbocco al mare e e il sud; o attaccare Donesk puntando sulle repubbliche separatiste, per spazzare definitivamente via l’esercito russo, preso tra due fuochi perché non ha più una retrovia dove arretrare. Gli oligarchi russi possono destituire Putin come fecero i militari grado-sovietici con Michail Gorbaciov nel 1991. I polacchi possono diventare la punta di diamante militare in tutta l’area. L’opposizione bielorussa sta insorgendo contro il dittatore Lukashenko. È lo “scenario 1917” evocato ieri da Putin nel suo ultimo messaggio, ricordando la guerra civile che seguì la fine del regime zarista dopo la rivoluzione d’Ottobre. Ironia della sorte, proprio lui, che è figlio del KGB, si ritrova oggi nel ruolo ingrato di un nuovo Romanov, candidato all’eliminazione. Silvio Berlusconi, nel suo ultimo incontro con il giornalista e amico Paolo Guzzanti, che ha raccontato questa conversazione drammatica nella sua biografia sul Cavaliere, immagina questo scenario: “Conosco bene Vladimir. Farà qualunque cosa per non arrendersi. E quindi penso al futuro”. Così Guzzanti gli chiede: “In che senso Silvio?”. Berlusconi, in quel 3 marzo scorso, aveva guardato fuori dalla finestra della sua villa, nel giardino della Certosa: “O mi costruisco subito un rifugio nucleare lì, uno di quelli lussuosi, dove posso rifugiarmi con i miei cari per tre anni…”. Oppure? Chiede il giornalista. E il Cavaliere: “Oppure ho un altro piano: organizzo il trasferimento di tutti coloro che mi vogliono seguire della mia famiglia in Australia”. Speriamo davvero che Berlusconi giocasse con il paradosso. O che abbia sbagliato il pro nostico. Speriamo che l’esito di queste mosse non siano né i confini della Russia del 1917, né quelli dei Balcani nel 1991. E soprattutto: speriamo che nessun governo dell’Occidente si debba ritrovare nella condizione di scegliere come reagire al lancio di un ordigno nucleare tattico.

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