S ulla carta, il 26 settembre la strada di Giorgia Meloni sembrava in discesa. La leader di Fratelli d’Italia aveva appena ottenuto una forte affermazione personale, rovesciando gli equilibri della sua coalizione. I due partiti destinati ad accompagnarla al governo, Lega e Forza Italia, grosso modo si equivalevano. Ci si poteva immaginare, tutt’al più, qualche sgambetto da parte di Matteo Salvini, il cui risultato elettorale era stato così deludente da fare presagire i tentativi più spericolati per rosicchiare punti preziosi.

Invece per ora Salvini e Meloni sembrano aver trovato un equilibrio. Il leader leghista non si è messo troppo di mezzo, per la formazione del governo. I nomi che ha messo sul piatto sembrano, perlomeno da quanto filtra sui giornali, inappuntabili: da Giuseppe Valditara (possibile ministro dell’istruzione) a Roberto Calderoli (a cui andrebbero gli affari regionali). Ha incassato la Camera dei deputati per il fedelissimo Fontana. All’economia, piazza per la prima volta un leghista, Giancarlo Giorgetti, con implicita sfida alla “Lega in doppiopetto”: dimostratemi che vale la pena indossarlo.

È invece Berlusconi a fare le bizze. Il racconto prevalente è quello di una satrapia ai suoi ultimi giorni, con la corte che ha preso in ostaggio il sovrano.

L icia Ronzulli, che tutti continuano a chiamare infermiera anche se ha più esperienza politica di gran parte del Parlamento, è dipinta come una sorta di Rasputin. Le sortite del capo vengono liquidate come deliri senili. Berlusconi ci è abituato. Quand’era più giovane, molti dei suoi migliori colpi di comunicazione furono derubricati a gaffe. In realtà alcune uscite improvvide servivano a rassicurare settori strategici dell’elettorato: che non si riduce a chi scrive sui giornali.

Neppure la volubilità del leader è una novità. La scissione più dolorosa subita da Forza Italia resta quella del cosiddetto “Nuovo Centro Destra”: il partito di Alfano non decollò e tuttavia FI si avviò essa stessa verso un declino dapprima lento quanto poi inesorabile. Se si scorrono, ad anni di distanza, i nomi di coloro che all’epoca se ne andarono è abbastanza evidente che a separarli dal leader non erano dissidi di carattere ideologico. Sono pochi quelli che, da quell’esperienza, uscirono antiberlusconiani inveleniti. La più parte di loro non sopportava più i tentennamenti e le giravolte del capo, che si districava come fanno sempre i re alle prese con una corte troppo affollata: danno qualcosa all’uno e poi all’altro, testandone indirettamente la pazienza assieme alla fedeltà. Alle ultime elezioni, Berlusconi ha preso la metà dei voti che alle precedenti ma più del doppio di quelli di cui l’accreditavano i sondaggi. Un’impresa titanica, che gli è riuscita nonostante facesse campagna elettorale sostanzialmente in solitudine, circondato da figure che magari saranno parlamentari (o ministri) più che decorosi ma non sono grandi magneti di consenso. Questo per dire che è troppo facile liquidare il Cavaliere come un leader fuori tempo massimo. Certo è che le campagne elettorali sono una cosa e le strategie parlamentari sono un’altra cosa. Avere affrontato l’elezione del Presidente del Senato, e la formazione del governo, senza Gianni Letta non è stata una gran mossa. Rivela però anche qualcos’altro. Stiamo assistendo all’inizio di una lotta per le spoglie di Forza Italia, nella quale le fazioni interne al partito si confrontano in modo spietato, traguardando possibili approdi futuri. Commenti e ricostruzioni politiche sono messaggi cifrati, che gli uni mandano agli altri e soprattutto ai loro interlocutori: si tratti della Lega salviniana, di Fratelli d’Italia o di quei centristi le cui ambizioni di opa su FI sono state raffreddate solo dal risultato elettorale. Il tramonto del partito del ’94, quello con cui Berlusconi stregò gli italiani lasciando intravvedere loro una rivoluzione liberale che non venne mai, è inevitabile. Il partito-azienda, montato in pochi mesi facendo perno sulla rete di Publitalia, non è mai diventato partito-partito. Sarebbe ingeneroso sostenere che non abbia avuto personale politico di qualità. Non è controverso notare che a nessuno dei potenziali delfini del Cavaliere è mai stato consentito di crescere. Più passano gli anni e più è evidente che il partito finirà col fondatore.

I cortigiani questo lo hanno capito ben issimo e oscillano, essendo degli esseri umani come tutti, fra la gratitudine per chi li ha riportati in Parlamento, la preoccupazione per il futuro, la tentazione di immaginare l’inimmaginabile: una carriera dopo il Cav. Sarebbe bello che la loro tenzone avvenisse sulla base di idee, programmi, di una qualche visione del futuro alternativa a quella degli alleati. Sono dinamiche alle quali non sono abituati.

La lotta per prendersi quel che resta del suo partito, le briciole di consenso che possono sopravvivere al suo declino, quel poco e quel tanto di rete e di personale politico che restano sul territorio, sarà senza esclusione di colpi. È una contesa che il Cavaliere fingerà di arbitrare, agevolando talora gli uni e talora gli altri, godendosi l'attimo. Fino a che sarà in scena, le luci saranno solo per lui.

Direttore dell’Istituto Bruno Leoni

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