A ntonio sistema la carne nei banconi del supermercato in cui lavora e dice amaramente: «Fino a un mese fa spendevo 13 euro di carburante per venire al lavoro dal mio paese a Cagliari, ora me ne servono 23». Dieci euro di maggiore spesa in brevissimo tempo. E poi a cascata tutto il resto. Secondo Adiconsum 1600 euro di costi in più all’anno per ogni famiglia in Sardegna.

Gli studiosi hanno sempre detto che nell’Isola i fenomeni economici si vedono con un certo ritardo. In questo caso la crisi è arrivata come una mannaia sui conti delle famiglie sarde.

E senza nessun ritardo. Perché? I fenomeni speculativi, in realtà, si verificano sempre tempestivamente e non qualche mese dopo, purtroppo. Non solo. La nostra economia è fortemente condizionata dalle attività di trasporto, il cui costo è cresciuto a causa del caro carburanti.

Se Antonio spende 10 euro in più per raggiungere il posto di lavoro, immaginiamoci cosa voglia dire trasferire con un camion un carico di pasta da Cagliari a Sassari. Anche perché noi non abbiamo altri mezzi di trasporto: il treno in Sardegna accoglie a malapena i passeggeri. E poi per produrre la pasta, bisogna utilizzare energia, ottenuta a sua volta dal carburante (gas, petrolio) il cui prezzo è comunque cresciuto in questi mesi.

C’è di più. Non solo costa di più il carburante, ma anche le materie prime. E noi in Sardegna quelle poche che avevamo le abbiamo messe in secondo piano rispetto alle produzioni che arrivano dall’estero. Pensiamo al grano. Nelle pietraie più aride del Supramonte, sopra le bellissime spiagge di Cala Luna e Cala Sisine, i pastori di Dorgali e Baunei producevano grano in piazzole poco più grandi di quelle utilizzate dai carbonai toscani in trasferta nell’Isola nei secoli passati. Oggi sembra impossibile. Certo non erano grandi quantità ma quanto bastava per l’autoconsumo. E attualmente le piccole produzioni familiari non avrebbero molto senso, ma da qui a dismettere quasi totalmente la coltivazione per una regione che è stata il granaio di Roma ce ne passa ed è veramente la negazione della propria esistenza.

Questo non significa che bisogna essere a tutti i costi autarchici. Però certamente si possono produrre più materie prime in loco e soprattutto si possono diversificare i fornitori. L’Italia importa dai Paesi dell’Est, oggi teatro di guerra, circa il 5% del fabbisogno di grano tenero, il 2% di grano duro e il 13% di fertilizzanti per l’agricoltura. Sembrano cifre irrisorie ma non lo sono, perché il blocco ha fatto salire i prezzi. Da ovest, invece, Stati Uniti soprattutto, arrivano produzioni che però non ci garantiscono la salubrità di quello che poi andremo a mangiare, a causa dell’utilizzo di glifosati e Ogm, per esempio per il mais, di cui l’Ucraina è il secondo importatore in Italia dopo l’Ungheria. Tra Est e Ovest, tuttavia, ci possono essere altri fornitori e altri mercati da mettere in concorrenza tra loro per spuntare prezzi più bassi e soprattutto evitare che una crisi ci mandi sul lastrico.

Vista la situazione, si può anche guardare lontano, almeno temporalmente, ridurre le importazioni e pensare che i contributi europei debbano servire per favorire una transizione positiva verso la produzione e non per ridurre il grano o le viti coltivate nell’Isola, come accaduto in un passato recente, pagando per una proprietà contadina che guadagna dalle terre inutilizzate. Oggi la tecnologia favorisce le imprese, l’agricoltura di precisione aiuta a ridurre la fatica sui campi. Non aspettiamo che qualcuno arrivi da fuori per indicarci la strada da seguire. Prendiamo noi la direzione giusta e mangiamo ciò che produciam o e trasformiamo in Sardegna. Almeno, se i prodotti costeranno di più, il valore aggiunto resterà nell’Isola.

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