I l troppo Trump stroppia. Le elezioni di medio termine, negli Stati Uniti, dovevano essere un’“onda rossa”: una vittoria netta, cioè, del Partito repubblicano. Non è inusuale nella storia americana che il partito che ha vinto la presidenza ceda il passo all’altro, nel controllo dei due rami del Parlamento. È anzi abbastanza comune che sia la disillusione circa le ricette del Presidente a mobilitare un elettorato scettico nei suoi confronti a recarsi alle urne. Doveva andare così anche questa volta e da mesi gli analisti prevedevano un’importante affermazione repubblicana.

I l partito dell’elefante conquista la maggioranza alla Camera, ma senza grandi margini, mentre il Senato resta in bilico. Perde, soprattutto, due governatori. La sua vittoria più eclatante, in Florida, sancisce la capacità di attrazione di leader diversi da Donald Trump, come Marco Rubio e Ron De Santis.

I commentatori politici tendono a dimenticare che non è facile portare la gente a votare. Per coloro che seguono la politica come fosse il calcio, le urne dovrebbero essere “naturalmente” piene quanto gli stadi. La maggior parte delle persone è restia a interessarsi di politica e per questo particolarmente eclatanti sono quegli esponenti politici, Donald Trump ad esempio, che riescono a fare uscire la gente di casa, recarsi al seggio, e votare per loro. Gli stessi esponenti politici, però, tendono anche a convincere altre persone a uscire di casa, recarsi al seggio, e votare contro di loro.

Negli anni scorsi Trump ha investito il Partito repubblicano come una scarica ad alto voltaggio. Ha cambiato le priorità tradizionali di quella forza politica, ne ha rivoluzionato il linguaggio. Negli Usa le primarie sono una cosa vera e consentono di scegliere chi poi dovrà disputarsi il seggio contro il partito avverso. In un sistema federale, davvero “la politica è sempre politica locale”: contano slogan e parole d’ordine, ma soprattutto la concreta rappresentanza degli interessi. Mai come nelle ultime primarie repubblicane un fiume di denaro si è mobilitato per candidati “nazional-conservatori” ovvero trumpiani. Le elezioni ridimensionano quella scelta. Entra al Senato il capitalista-scrittore J.D. Vance, uno degli intellettuali del trumpismo. Ma molti restano al palo.

Qualcuno dirà: le idee che hanno gonfiato le vele all’amministrazione Biden, dall’elevata spesa pubblica all’Ucraina, sono più radicate negli Stati Uniti di quanto appaia. Hanno torto i conservatori, i tempi sono cambiati. Può darsi. A chi scrive pare però più probabile che il Partito repubblicano abbia gestito male la macchina elettorale, privilegiando candidati meno radicati nell’illusione che il trumpismo fosse un’onda in grado di sollevare tutte le barche.

Da principio i conservatori pensavano di fare di queste elezioni un referendum sulla presidenza Biden. Biden le ha abilmente trasformate in un referendum su Trump. I repubblicani hanno pensato che la cosa li avvantaggiasse e si sono prestati al gioco. Che non ha funzionato. Ora l’ex Presidente dovrà scoprire le carte. Trump sogna di essere il secondo Presidente, dopo Grover Cleveland, a fare due mandati non consecutivi. Pensava di candidarsi sull’onda della vittoria. In sua assenza dovrà scegliere se provare a proporsi come “guaritore” di un partito ferito o passare la mano, magari provando a vestire un abito che poco gli si attaglia, quello di padre nobile di un nuovo candidato.

Le strutture del Partito repubblicano proveranno a resistergli. Dalla loro hanno il buon risultato dei candidati più radicati localmente. E anche la conferma a furor di popolo dei governatori più visibili, come De Santis (Florida) e Abbott (Texas), che non a caso sono quelli che più si sono opposti a lockdown e restrizioni Covid. I commentatori politici non considerano (è avvenuto anche per la vittoria di Giorgia Meloni) la pandemia una questione elettoralmente rilevante. Però esiste un voto anti-lockdownista, negli Stati Uniti è forte ed è coerente con quell’istinto libertario che, dal 1776, contraddistingue gli americani. I repubblicani dovranno rifletterci, nel tentativo di discernere cosa tenere e cosa buttare dell’esperienza e della retorica di Donald Trump.

Direttore dell’Istituto Bruno Leoni

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