L a prima prova del governo Meloni è la legge di bilancio. Si pensava che il centrodestra la avesse in qualche modo “ereditata” dal governo Draghi, complice anche il fatto d’essersi scelto come ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, che dell’esecutivo precedente era stato uno dei punti di riferimento. Invece, per quanto si coglie nelle anticipazioni di questi giorni, la coalizione guidata da Giorgia Meloni vorrebbe già lasciare qualche segno, da una parte sospendendo il ritorno in vigore della legge Fornero “integrale” e dall’altra con qualche primo intervento di tipo fiscale.

In quest’ambito, il centrodestra ha alzato da anni la bandiera della flat tax: che dovrebbe significare una sola aliquota (una “tassa piatta”) per l’imposta sul reddito, indipendentemente dal reddito. Un orizzonte di riforma ambizioso, che costerebbe fatica e una inevitabile revisione della spesa pubblica, ma dal quale i cittadini guadagnerebbero un fisco più semplice e rispetto al quale sarebbe finalmente in grado di programmare i propri impegni: indipendentemente, per esempio, dalle discontinuità di carriera e nei rapporti di lavoro.

L a politica però è l’arte del possibile e anche dell’improbabile, e così ci siamo abituati a diverse versioni della flat tax, il più delle volte accompagnata da un aggettivo. L’ultima è la flat tax incrementale: un’aliquota più bassa (il 15%) sull’incremento di reddito nel 2022 rispetto al maggiore dei redditi dichiarati nei tre anni precedenti. Essa potrebbe incentivare le persone a lavorare di più (perché sugli incrementi di reddito il fisco è meno rapace) ma introduce un’ulteriore complessità nel sistema fiscale.

Il governo starebbe inoltre pensando di manovrare un’altra cosiddetta flat tax, ovvero il regime agevolato per le partite Iva, con l’aumento da 65mila a 85mila euro della soglia di ricavi e compensi. Un provvedimento, quest’ultimo, che invece avrebbe l’effetto opposto: spingerebbe le persone a non passare la soglia fatidica, per non fronteggiare un’impennata dell’aliquota.

Il problema più grosso del nostro sistema fiscale è che è una specie di vestito di arlecchino. In democrazia, probabilmente questo è inevitabile. Non solo in Italia, governo e parlamento si trovano tutti i giorni a rispondere a questuanti che, per conto di questo o quel gruppo d’interesse, chiedono agevolazioni, sconti, sussidi per una certa categoria di persone. Tutto, ovviamente, legittimo, ma il guaio è che, di agevolazione in agevolazione, di privilegio in privilegio, ci ritroviamo con un sistema fiscale nel quale, a dispetto di tutte le chiacchiere sull’equità, due persone che guadagnano lo stesso reddito non pagano le stesse imposte.

Una riforma fiscale dovrebbe avere come primo e imprescindibile obiettivo la semplificazione. Soprattutto se a promuoverla è una coalizione che fa da sempre dell’abbassamento delle tasse la sua bandiera. La complessità fiscale è una tassa sulla tassa, per così dire: rende più difficile essere contribuenti leali, crea spazi per contenziosi e dispute, “costa” alle persone tempo e alle imprese consulenza qualificata.

Molto giustamente, il Ministro Giorgetti ha detto nei giorni scorsi che non si può usare il fisco (tasse punitive o detrazioni incentivanti) per cercare di far fare alle persone cose che non desiderano fare. Le imposte vengono spesso manovrate con quell’obiettivo. Nel mirino c’è il superbonus, pensato per sostenere le imprese dell’edilizia nella crisi pandemica. Non basta. Il governo dovrebbe da una parte mettere mano al ginepraio delle spese fiscali (deduzioni e detrazioni) e dall’altra pensare a ridurre le tasse con un piano credibile. È chiaro che un esecutivo appena insediato, che non maneggia i dossier, non può presentare una riforma fiscale coerente. Ma anziché introdurre nuovi regimi privilegiati, potrebbe decidere di tagliare (poco) le imposte a tutti. In assenza di una flat tax, meglio un taglio “flat”, piatto, alle tasse, per modesto che sia, che aprire e chiudere il rubinetto discrezionalmente, aumentando la complessità. Le risorse sono poche quindi il taglio risulterebbe modesto. All’interno di un piano di legislatura per la riduzione della pressione fiscale, però, si tratterebbe di un passo che segna una direzione.

Si dirà: la crisi energetica impone prudenza. Giusto: i tagli alle imposte vanno finanziati con corrispondenti riduzioni di spesa. Però il governo farebbe bene a dare un segnale, prudente ma chiaro. Soprattutto, farebbe bene a darlo il Primo ministro. Questa è la sua legge di bilancio d’esordio: non avrà mai più un simile potere nei confronti del Parlamento, né altrettanta forza per mettere a tacere eventuali alleati recalcitranti. Se non ora, quando?

Direttore dell’Istituto Bruno Leoni

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