H a fatto scalpore il caso del pubblico ministero di Brescia che ha chiesto l’assoluzione del marito bengalese accusato di maltrattamenti ai danni della moglie perché avrebbe agito “per ragioni culturali” e quindi non avrebbe avuto la coscienza e volontà di farle del male. La donna, sposata in Bangladesh con nozze combinate, nel 2019 trovò il coraggio di denunciare, raccontando di essere stata «venduta dagli zii alla famiglia del cugino nel 2013», quando aveva 17 anni e di essere poi stata «trattata come una schiava, umiliata e costantemente minacciata di essere riportata in Bangladesh».

I l magistrato dell’accusa aveva chiesto l’assoluzione del marito perché «il fatto non costituisce reato», sostenendo che mancasse l’elemento soggettivo tipico del reato e aggiungendo che «i contegni di compressione delle libertà morali e materiali della persona offesa da parte dell’imputato sono frutto dell’impianto culturale di origine e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine».

Secondo il magistrato requirente si tratterebbe quindi di un reato “culturalmente orientato”, al quale mancherebbe la componente soggettiva del dolo. La vicenda ricorda un altro caso del 2006, quando in Germania, in un caso di violenza sessuale, furono riconosciute le attenuanti e l’imputato, un cameriere sardo, ebbe uno sconto di pena perché i giudici tennero conto delle sue "impronte culturali ed etniche: è un sardo… con una particolare cultura, quella sarda, notoriamente patriarcale e primitiva, ancorata attorno al ruolo e alla figura del pater familias, e che vede la condizione della donna fortemente sottomessa”. Nel caso di Brescia, del quale non si conoscono gli atti processuali e perciò ci si affida alle cronache giudiziarie, la vicenda è interessante perché involge temi di fondo non solo della giustizia penale, ma attinenti anche all’indipendenza della magistratura dalle aspettative dell’opinione pubblica, alla necessaria integrazione degli immigrati nel nostro Paese e quindi del rispetto dei principi generali del nostro ordinamento giuridico, soprattutto se si tratta dei diritti inviolabili dell’uomo, ma pure alla giurisprudenza “creativa” che, sostituendosi al legislatore, va oltre la legge, talvolta a favore dell’imputato, più spesso in suo danno, con il conseguente effetto sulla fiducia dei cittadini nella giustizia.

Superfluo dire che la legge non prevede alcuna scriminante, nemmeno putativa, per un retaggio pseudo-culturale contrastante con i diritti inviolabili della persona: a questa stregua, se ci trovassimo a giudicare un cannibale della Nuova Guinea, visto che in quel Paese è ancora in auge questo rito, non potremmo condannarlo per omicidio perché avrebbe agito “per ragioni culturali”. Ma, per fortuna, nel processo di Brescia, è stato lo stesso pubblico ministero a rientrare nei ranghi del codice penale, modificando la sua richiesta e chiedendo l’assoluzione perché il fatto non sussiste» e spiegando che il reato di maltrattamenti, essendo un reato abituale, difetta nel caso concreto proprio dell’abitualità della condotta perché dai racconti della persona offesa emergerebbero solo tre episodi di violenza in sei anni di convivenza. E questa richiesta, assai più conforme al diritto, è stata accolta dal tribunale che ha assolto l’imputato con formula piena, proprio perché «il fatto non sussiste» a causa della mancanza di una sua condotta abituale. In conclusione: ogni tanto la giustizia non corrisponde alla legge e talvolta viene dirottata anche fuori dalla ragionevolezza. Ma per fortuna c’è, prima o poi, un giudice che la rimette nei suoi binari. La posta in gioco è alta: ogni sentenza avvertita come iniqua dai cittadini mina la fiducia nella magistratura.

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