N el processo liberale che riconosce l’economia di mercato e il primato della libertà occorre comunque determinare, circoscrivere e qualificare il ruolo dello Stato, un tema che ha appassionato filosofi e studiosi sin dall’antichità.

Nel 1600 Thomas Hobbes ribalta la visione aristotelica dell’uomo animale politico per indicare invece nel mero bisogno la molla che spinge gli esseri umani ad associarsi. Nella sua opera, il “Leviatano”, Hobbes basa l’intera scienza politica sull’equilibrio tra bramosia naturale e ragione, e apporta un fondamentale valore aggiunto elencando diciannove “leggi di natura” (la ricerca della pace e, ove questa fosse impossibile, l’utilizzo degli strumenti della guerra; la rinuncia del singolo alle pretese sui beni comuni; il rispetto delle regole mutuamente stabilite quale base della giustizia; ecc.) per creare un impianto politico che dimostra ancora validità. L’unico modo per rendere le leggi rispettate è conseguentemente quello di costituire un potere, lo Stato, tanto forte da rendere sconsigliabili azioni divergenti. Chi rappresenta lo Stato è il Leviatano, il sovrano oppure un’assemblea.

Il giovane economista in odore di Nobel, Daron Acemoglu (consiglio due libri: “Perché le nazioni falliscono” e “La strettoia”), sostiene oggi l’idea di uno Stato forte, ciò per evitare cataclismi sociali, far rispettare le regole proteggendo dal caos, porre fine alle rendite e incitare gli individui al processo collettivo di creazione del valore.

M olti spunti derivano dalla sua cultura che guarda a Schumpeter, il teorico dello sviluppo tramite innovazione. Acemoglu si rende conto che il sentiero attraverso il quale deve passare lo Stato sta diventando una strettoia: la pressante necessità di garantire le capacità di crescita degli individui (scuola, formazione, eguaglianza delle possibilità, protezione sociale dei fragili), di proteggere le minoranze e assicurare l’efficacia produttiva (con stabilità delle norme, fiscalità incentivante, valorizzazione della ricerca e dell’innovazione), di preservare l’esistenza di mercati liberi, tutto questo va a disegnare un Leviatano “incatenato”, come lui lo chiama, il cui potere non è concentrato ma sottomesso a contrappesi, posto a metà tra un Leviatano “dispotico” (che soffoca le libertà e dunque le capacità di crescita, d’ascesa sociale, d’invenzione e realizzazione personale) e uno “assente” che porta a un contesto d’insicurezza fisica e giuridica. “Il solo modo di forgiare una libertà duratura è di trovare l’equilibrio necessario a costituire un Leviatano forte ma incatenato. La vera libertà non può prosperare senza uno Stato oppure sotto il giogo di un Leviatano dispotico.” In altre parole, “quanto più lo Stato diventa forte secondo necessità, tanto più la società civile deve essere forte e preparata, altrimenti il sistema entra irreversibilmente in crisi”.

Tutto molto giusto e razionale, ma – ahimè – obsoleto quanto la fine della storia di Fukuyama. Perché obsoleto sta diventando lo Stato, spiazzato da potenti entità sovranazionali che ne superano i confini, da raggruppamenti e unioni che sottraggono sovranità e trasparenza, da movimenti tettonici essenzialmente finanziari che spostano il vero potere ben più in alto del nostro Leviatano. L’approccio liberale ai prodotti finanziari non ha solo creato un mostro di quasi-moneta, pronto a esplodere, ma ha purtroppo sottomesso lo Stato a una dipendenza strategica verso i famosi “mercati” che sfruttano disponibilità immense senza dover rispondere alle “leggi di natura”. La finanziarizzazione dell’Occidente sta pertanto diventando una gabbia (dispotica), con un’élite sfuggente che finisce per dominare le moltitudini.

“La leggenda del Santo Inquisitore” di Dostoevskij, 1880, può essere un preannuncio di cosa ci aspetta? Rileggiamo: “…Allora noi daremo loro la tranquilla, umile felicità degli esseri deboli, quali essi furono creati. Ci ammireranno e avranno paura di noi, e saranno fieri che noi siamo così potenti e così intelligenti da aver potuto pacificare un così tumultuoso e innumerevole gregge. Temeranno la nostra collera ma altrettanto facilmente passeranno, a un nostro cenno, all’allegrezza, al riso, e alle felici canzoni infantili. Certo li obbligheremo a lavorare, ma nelle ore libere organizzeremo la loro vita come un gioco infantile con canti e cori e danze. Consentiremo loro anche il peccato, perché sono deboli e inetti, ed essi ci ameranno come bambini, perché permetteremo loro di peccare.”

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