S u quanto avvenuto nei giorni scorsi, con la tremenda strage perpetrata da Hamas, ragioneranno molto gli storici del futuro. Nel breve termine, possiamo aspettarci che cambino le priorità di politica estera degli Stati Uniti. L’establishment Usa negli ultimi anni ha perseguito un disegno abbastanza chiaro. Da una parte, ha scelto il disimpegno in Medio Oriente, dove gli americani hanno vinto le loro guerre in Afghanistan e Iraq ma sono stati incapaci di vincere la pace, portando stabilità nella regione. Andarsene da quei territori è stato importante se non altro per dare risposta alle domande degli elettori, che a partire da Obama (2008) hanno sempre votato per un Presidente che prometteva di riportare a casa i ragazzi.Dall’altra parte, però, l’amministrazione Usa si è impegnata a gettare le basi di una nuova guerra fredda, dove l’antagonista è oggi la Russia ma in prospettiva la Cina. Questa nuova guerra fredda non ha la forte caratterizzazione ideologica della precedente ma si gioca sul filo dell’economia e viene incontro alla domanda di protezionismo proveniente da parte del mondo dell’impresa e dai sindacati. L’invasione dell'Ucraina, un Paese per anni fortemente presidiato da alcuni segmenti del mondo diplomatico e militare americano, è stata utile a consolidare questa strategia.A differenza della guerra fredda vecchia maniera, caratterizzata da un autentico consenso bipartisan, un pezzo non piccolo dell’opinione pubblica è stato molto freddo nei confronti degli ucraini.

S e il ceto politico repubblicano, con l’eccezione di Donald Trump, è fedele alla linea dell’attuale amministrazione, lo stesso non si può dire di elettori e militanti, che guardano alla “guerra di Biden” con scetticismo e che sono contrari all’aumento delle spese per il sostegno a Zelensky.Ora le cose si complicano. Infatti quella fra Stati Uniti e Israele è una relazione particolare. A sinistra ci sono state, nel corso degli anni, posizioni critiche mentre a destra il sostegno allo Stato ebraico è più radicato. Biden ha offerto a Netanyahu (figura detestata dalla sinistra internazionale al pari di Trump) un sostegno importante. A dispetto delle differenze ideologiche, i due si conoscono da anni. Ma il Presidente farà fatica a compiacere l’ala più estrema del suo Partito, che è quella alla quale si è legato sia in politica economica che rispetto alle questioni dei diritti civili e sociali. Inoltre, la solidarietà americana non può diventare un assegno in bianco. Gli Emirati hanno fatto un comunicato pro Israele, ma l’Arabia Saudita è stata ambivalente. C’è il rischio che si ricompatti il fronte “arabo”, prendendo in contropiede gli Usa.Rispetto alla politica interna, cambia lo scenario delle prossime elezioni. Fino a ieri era chiaro che avrebbe vinto chi avesse promesso una rapida conclusione all’affaire ucraino. I repubblicani, però, sono tendenzialmente filo-israeliani e appoggerebbero una rappresaglia financo durissima nella striscia di Gaza. L’anti-islamismo post-11 settembre è ancora uno dei collanti più efficaci fra le anime della destra.Biden verrà criticato perché troppo interventista in Ucraina e troppo timido in Medio Oriente. Lo spostamento di attenzione dell’opinione pubblica impone di ricalibrare l’aiuto a Zelensky, anche dopo la sua problematica intervista all’Economist, nella quale adombrava la possibilità di episodi terroristici in caso di ondeggiamenti occidentali. L’establishment diplomatico-militare sarà costretto a tornare sui suoi passi e a fare i conti con problemi e territori che desiderava dimenticare. I repubblicani faranno fatica a dosare simpatie filo-russe, un forte sentimento anti-cinese e il tradizionale supporto a Israele.Per il resto del mondo tutto questo significa che aumenta l’incertezza. La superpotenza egemone non ha idea di dove andare. La tentazione di giocare all’Impero non trova più sostegno elettorale ma la classe politica non si rassegna a un ripiegamento su se stessa. Chi brinda per il possibile rallentamento della stretta monetaria dovuto ai venti di guerra ricorda i festaioli sul ponte del Titanic.

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