P er ora in questa campagna elettorale hanno contato soprattutto gli adempimenti formali. Il rito stantio, ma necessario, della presentazione dei programmi. La composizione delle liste, nel contesto di una legge elettorale complicatissima. Qualche scivolone, con candidature diventate, nel tritacarne dei social, “impresentabili”. Poche prove di coraggio: i leader preferiscono liquidare certe scelte come errori, che difenderle sulla base del più classico degli argomenti, i partiti non sono caserme e la si può pensare allo stesso modo sul salario minimo o sulle tasse pur avendo visioni diverse sulla guerra in Ucraina e viceversa.

Rimane un mese per capire davvero su che cosa si confrontano le forze politiche. Secondo alcuni osservatori, la discussione sarà tutta nel segno della politica estera. È però improbabile, almeno per tre ragioni. La prima è che la politica estera è tradizionalmente assente dal dibattito italiano: al netto di alcune vaghe “scelte di fondo”, che intersecano le identità politiche (Israele/Palestina, ecc), agli italiani interessa poco. La seconda è che in realtà, con l’eccezione di Italexit e, a detta dei suoi avversari, di alcune frange della Lega e dei Cinque Stelle, il quadro è sorprendentemente unanime: tutti i partiti maggiori fanno professione di fedeltà agli Stati Uniti e alla causa ucraina. La terza è che, almeno secondo i sondaggi, il sostegno a quest’ultima non è così forte, fra gli italiani, quanto lo è all’interno della classe politica. Anche per questo, è probabile che sulla guerra i partiti mettano la sordina.

C iò riuscirà loro solo in parte, perché su noi tutti incombe il fantasma di un “autunno freddo” e il possibile razionamento del gas, che compravamo dal nostro attuale nemico, la Russia. Su questo terreno, la sinistra ha il vantaggio di esser ben sintonizzata su alcune parole d’ordine, dalla lotta al cambiamento climatico all’investimento in rinnovabili, che sono ormai radicate nella società e hanno fatto breccia soprattutto fra i più giovani. La destra vi opporrebbe le ragioni del pragmatismo e della crescita economica: ma fatica a farlo perché, negli anni passati, non si è attrezzata con una visione alternativa. A ogni modo, il dibattito sui temi energetici è più pericoloso per i politici di quanto appaia: sono questioni fortemente specialistiche, sulle quali un leader rischia di finire preda di gruppi di interesse che gli offrono “soluzioni chiavi in mano”, tacendo ovviamente su tutte le conseguenze che esse produrrebbero. Inoltre, non è facile tradurre tali temi in messaggi facili e immediatamente comprensibili al singolo cittadino. Si rischia di esagerare in allarmismo o, al contrario, di rassicurare anziché preparare psicologicamente le persone a sacrifici e difficoltà. Sotto questo profilo, la scelta di gettare acqua sul fuoco delle preoccupazioni fatta dal governo Draghi è una polpetta avvelenata per chi verrà dopo: avendo promesso che andrà tutto bene, qualcuno dovrà prendersi la colpa, se le cose purtroppo così non andranno.

I cittadini ordinari, le persone comuni, dovrebbero essere l’oggetto delle brame dei partiti. Comprenderli, intercettare i loro desideri, offrire loro soluzioni che trovino persuasive. In pratica, però, i gruppi politici preferiscono coltivare il consenso di determinati gruppi sociali, uniti da istanze e preferenze comuni. In particolare, negli ultimi anni, anziché cercare di occupare il centro, di convincere cioè un ipotetico elettore che una volta potrebbe votare per la destra e la successiva per la sinistra, hanno scelto di mobilitare i gruppi a loro più affini. Questo porta a una radicalizzazione del dibattito (non si cerca di persuadere un immaginario elettore neutro, ma di spronare le proprie truppe) e pure ad allontanarsi dalle istanze effettivamente sentite. Viviamo tutti in “bolle” sempre meno comunicanti le une con le altre. Non si spiega, se no, l’insistenza con cui nei giorni scorsi i partiti si sono affrettati a comunicare le proprie intenzioni, per esempio, rispetto al futuro della rete telefonica. Deve essere rinazionalizzata (lo pensano più o meno tutti)? Con quali modalità? Con che obiettivi? Questioni altamente specialistiche e a cui sanno rispondere, a ragion veduta (e dandosele di santa ragione) giusto un manipolo di economisti. Ma il tema è percepito come segnaletico nel recinto dei social e, dunque, fiato alle trombe.

Che cosa si aspetti davvero la maggioranza degli italiani dal prossimo governo non lo sappiamo e vaticinarlo è difficile. Probabilmente si aspettano poco: sono abituati, ormai, al rapido sfilacciarsi delle promesse elettorali. È la loro disillusione che li porta, regolarmente, a votare per chi sembra più nuovo e meno compromesso con la gestione del potere. Gli altri, quelli che invece in qualche modo hanno governato negli ultimi anni, dovrebbero trovare immagini e idee ambiziose, in grado di riaccendere un po’ di entusiasmo nei loro confronti. Sarebbe utile a tutti: altrimenti siamo destinati a ripetere sempre lo stesso canovaccio. Si sceglie chi era lontano dalla “stanza dei bottoni”, pronti a esserne delusi non appena ci sarà entrato.

Direttore

dell’Istituto Bruno Leoni

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