P er quel che s’avverte, le idee sullo sviluppo possibile rimangono, qui in Sardegna, sempre più divisive. Nel senso – chiarisco – che su ogni opzione in campo ci si divide in guelfi e ghibellini, in bianchi e neri (o, ancora, in pastori e agricoltori o in sostenitori di torri e di campanili), a conferma di quella disunità che sembra essere il carattere distintivo di noi sardi. Ne aveva rilevato le negatività l’economista cagliaritano Alfredo Pino Branca, scrivendo della situazione isolana in quel primo dopoguerra.

È una regione questa nostra – sosteneva – dove per ogni intervento, sia esso per una bonifica o per una nuova strada, si trova modo di animare una polemica sul perché si sia privilegiato magari l’Oristanese e non l’Ogliastra, o viceversa. Aggiungendo che aveva proprio ragione il Siotto Pintor nel narrare le vicende dei popoli sardi, ricordati da lui rigorosamente al plurale per chiarirne la storica disunità. D’altra parte, anche un geografo assai attento come il francese Maurice Le Lannou aveva individuato la divisione cantonale dell’isola come uno dei suoi più invalidanti handicap per favorirne il progresso e la crescita.

Lo è stato, ricordiamolo, anche in tempi più recenti, come quelli della prima Regione, dove ogni investimento doveva essere almeno duplice, un po’ di petrolchimico nel Sassarese ed un po’ nel Cagliaritano e, magari, con una mini-presenza anche nel Nuorese, ad esempio. Continua ad esserlo ancora oggi, seppure ci sia assai poco di “commestibile” economico da dividersi, se non i presidi politici territoriali. Così, per una popolazione regionale che è poco più della metà di Roma, si sono istituite otto province, di cui una con appena un terzo di popolazione d’un quartiere romano come Monte Sacro. Ancora: se il governo centrale ha deciso di introdurre l’unicità regionale dell’Authority per il controllo del sistema dei nostri porti, non ha tardato ad avanzarsi la richiesta perché la si scindi almeno in due, a sud ed a nord dell’isola, appunto (ed in nuce ce ne sarebbe anche una terza).

Non vi è dubbio peraltro che quella disunità è madre e figlia insieme delle diseguaglianze territoriali di un’isola che l’estro letterario di Marcello Serra avrebbe definito essere un continente, cioè una terra segnata, per definizione, da diversità geofisiche, geosociali e geoambientali. In questo senso andrebbero quindi accettate, ed anche comprese se non proprio giustificate, per via di scelte politiche che, dagli aragonesi in avanti, hanno sempre fatto figli e figliastri, come s’usa dire, privilegiando alcuni poli a danno di altri. Sembra giusto quindi chiedere alla politica attuale di trovare ed adottare delle idonee correzioni.

Desidero ricordare al riguardo che qualche decennio fa, accompagnando in un tour per l’isola l’economista Siro Lombardini, che fu senatore ed anche ministro, colsi tutto il suo stupore per l’arretratezza, non solo economica, visibile in diversi comuni dell’interno, in confronto allo sfarzo consumistico ed edonistico, d’impronta europea, di alcuni centri della costa nordorientale: “nella visita a Tadasuni mi pareva d’essere tornato agli stenti pauperistici del primo ’900 – queste pressappoco le sue parole – mentre a Loiri mi sono sentito già nella modernità del 2000!”. Come rimedio ci vorrebbero due politiche distinte, questo il suo parere, sia in tema fiscale che sociale per affrontare queste diversità, per correggere gli sfasamenti dell’economia e per ridare contemporaneità e similitudine nelle condizioni di vita e di residenza ai diversi luoghi. Ancora oggi si deve registrare, purtroppo, che il reddito medio pro capite divide Tadasuni da Loiri (qui intesi come esempio della diseguaglianza) per circa l’80 per cento!

Ritengo quindi che il dualismo attuale non sia più fra città e campagna, come accadeva nel secolo scorso, ma fra comuni sempre più osso e quelli sempre più polpa, cioè fra luoghi dell’arretratezza e dello spopolamento (e della povertà) e quelli del progresso e della crescita demografica (e del benessere). Perché questa è da ritenersi la nuova “questione” che l’isola ha il dovere, e l’urgenza, di affrontare e di portare a risoluzione.

Vi è infatti da rilevare che una Sardegna così con queste penalizzanti differenziazioni nel suo territorio e nelle sue comunità, non può essere accettata da una politica che eserciti saggiamente responsabilità di guida e di governo.

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