U na delle ragioni per cui le opinioni pubbliche occidentali erano così perplesse da Donald Trump era l’apparente incapacità dell’allora presidente Usa di mordersi la lingua. Le uscite di Trump, all’apparenza del tutto spontanee e spesso contraddittorie, erano con tutta probabilità ben calcolate e volte a garantirgli il sostegno del suo elettorato. Nulla di nuovo sotto il sole. Le gaffe di Silvio Berlusconi erano un po’ la stessa cosa. L’impressione è che lo stesso non si possa dire di Joe Biden. Il nuovo inquilino della Casa Bianca sta collezionando dichiarazioni roboanti.

N el giro di poche ore è stato corretto prima da Macron, che gli ha spiegato che non è il caso di chiamare Putin “macellaio” se devi negoziarci un accordo, e poi dal suo stesso segretario di Stato Blinken, che ha smentito che la politica di sanzioni ai danni dell’economia russa sia volta a stimolare un cambio di regime: a sloggiare, cioè, Vladimir Putin dal Cremlino. Ma ieri Biden ha rincarato la dose proprio mentre erano in corso le trattative in Turchia.

Il Presidente americano sente probabilmente, come tutti i leader occidentali, la forte pressione di media e social media, luoghi dove la comprensibile simpatia col popolo ucraino si traduce facilmente nella richiesta di abbattere il regime putiniano “costi quel che costi”. Ciò corrisponde a una intuizione morale perfettamente normale, quella che ci porta a parteggiare con l’aggredito e contro l’aggressore. Il guaio però è che le guerre non sono partite di calcio e un tifo troppo acceso, se tracima nei discorsi dei capi politici occidentali, può rendere più arduo il necessario lavoro diplomatico per pervenire all’esito che tutti auspichiamo: al più presto un cessate il fuoco e poi una soluzione diplomatica.

Da questo punto di vista, preoccupa che anche le grandi organizzazioni internazionali, come il G20 e il Fondo monetario internazionale, entrino nel tritacarne. Biden ha chiesto di rimuovere la Russia dal G 20, prima era stata Ursula von der Leyen a sostenere che fosse opportuno estromettere i russi dal Fondo monetario internazionale e prima ancora l’Ocse aveva sospeso Russia e Bielorussia.

L’idea è che in qualche modo anche a questi organismi vada applicata la logica delle sanzioni: mettere ai margini i russi, isolarli in ogni modo. Alcuni studiosi di relazioni internazionali sostengono che per comprendere la politica di un Paese verso l’esterno sia molto importante lo status che viene riconosciuto a una certa nazione. In questa prospettiva, sia le potenze “in ascesa” che quelle “in declino” sarebbero particolarmente bellicose, in un caso per conquistare una certa reputazione, nell’altro per compensare la perdita di prestigio.

Non serve condividere queste teorie per considerare pericoloso questo “cordone sanitario” attorno alla Russia. Qualsiasi cosa avvenga in Ucraina e in Russia, a un certo punto il tavolo delle trattative andrà aperto, e meglio prima che poi. Le istituzioni internazionali appartengono a una architettura complicata, che abbiamo messo a punto in mezzo secolo, per mantenere costante il dialogo fra Paesi che pure hanno interessi, politiche economiche, riferimenti culturali diversi. Da una parte, allontanare i russi conferma il pregiudizio loro e dei complottisti: che, cioè, le grandi organizzazioni internazionali altro non siano che una emanazione dell’egemone americano. Ciò di per sé le indebolisce, con effetti negativi per tutti, nel lungo termine. Parafrasando una vecchia battuta, sono le uniche organizzazioni sovranazionali che abbiamo. Dall’altra, in questi luoghi c’è uno scambio continuo non solo fra i capi, ma anche fra i loro sherpa e più in generali fra burocrati di diverso livello. Queste comunicazioni costituiscono parte di un’ampia conversazione, nella quale si impara almeno a conoscersi un po’ meglio.

Sui giornali va di moda profetizzare una nuova guerra fredda. Ma dovrebbe essere uno scenario da evitare, non un obiettivo politico. Chiudere i canali di comunicazione soddisfa la domanda popolare di una politica estera “moralizzata”, che distingua chiaramente fra buoni e cattivi. Non aiuta, però, ad accelerare la fine del conflitto.

Direttore dell’Istituto

“Bruno Leoni”

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