È possibile aggiungere dolore a uno strazio immenso? Calpestare il dramma di una donna che paga col sangue del suo sangue la scelta di lasciare, e denunciare, un uomo violento? Costringere a discolparsi una madre che ha visto il figlio morire per lei?

Sì, è possibile. È successo a Paola Piras, la madre di Tortolì sopravvissuta alla furia dell’ex grazie al figlio diciottenne Mirko che si è frapposto fra lei e l’assassino. Un figlio che muore ammazzato per difenderti dall’uomo che un tempo avevi amato: c’è qualcosa di peggio?

La solidarietà delle tante persone che le hanno dimostrato vicinanza e affetto e le sono state accanto nelle drammatiche settimane in ospedale con la vita appesa a un filo si scontra con le parole indicibili di chi la accusa dietro la tastiera di uno smartphone. “Se non ti fossi fidanzata, se non avessi scelto un pakistano, se non avessi fatto coppia con uno più giovane di te”. Il che equivale a dire: “Se avessi rinunciato a vivere”. Perché, sì, questo è: il giudizio su una donna che ha deciso di essere libera, di rifarsi una vita sentimentale dopo la fine del matrimonio, di liberarsi poi da un compagno che ha scoperto violento. Quante volte abbiamo incoraggiato chi subisce violenza domestica: bisogna denunciare.

Ecco, Paola Piras lo ha fatto, ha avuto la forza e il coraggio di andare in caserma e mettere tutto nero su bianco. Per sè e per i suoi figli. Ed è andata a finire come sappiamo: nessuno l’ha protetta dopo la denuncia. E quello si è arrampicato nella notte attraverso il terrazzino.

Q uell’uomo ha fatto irruzione a casa e con un coltello ha ucciso il povero Mirko dopo aver ridotto in fin di vita lei con 18 coltellate.

Si dirà: ma chissenefrega degli odiatori da social. Invece non è così. I social fanno parte della nostra vita, ignorarli è impossibile. E per chi ha subito un trauma gigantesco come quello della morte del figlio che ha voluto frapporsi alla furia omicida dell’ex rifiutato dalla madre, reggere l’onda d’urto delle cattiverie che perforano cuore e cervello è difficilissimo. Paola Piras lo ha scritto in una lettera accorata al Corriere della Sera, dopo la vicenda simile alla sua accaduta a Foggia, dove un uomo ha ucciso la figlia (sua e) della donna che aveva cercato di ammazzare: “Ti auguro che nessuno dall’esterno osi mai dire che è stata colpa tua, perché quello fa male, avvelena i pensieri, ti mette sullo stesso piano dell’assassino. Una malignità. Con me lo hanno fatto più volte. Colpa mia - ha detto qualcuno – perché dopo la separazione non sono stata solo madre e santa ma mi sono avventurata in una storia sbagliata, con un uomo violento, per di più pakistano. Colpa mia che con quella storia me la sarei un po’ cercata…”.

È il solito problema: le vittime - di qualunque reato - sono vittime fino a un certo punto. Omicidi, sequestri di persona, violenze sessuali, ma anche truffe, estorsioni: sono sempre un po’ complici, per non dire colpevoli. Del resto, quante volte leggiamo, e noi giornalisti scriviamo, davanti a un brutale delitto di cui non si sa nulla, “si scava nel passato della vittima”.

Certo, sotto il profilo investigativo è un atto obbligato, ma quella frase, se ci riflettiamo, ha un’accezione negativa nei confronti di chi il reato ha subìto perché significa che nella vita, nella storia, nell’esistenza della vittima c’è la soluzione. Ed è lì che ci si concentra, non sul colpevole. Ti ammazzano? Chissà che cosa hai fatto. Ti sequestrano? Hai fatto torto a qualcuno. Ti violentano? Avevi le minigonna. Ti ricattano? Peggio per te che ti sei messo in quella condizione.

È un approccio culturale diffuso del quale non ci si rende conto fino in fondo. Certo, non tutti i reati sono uguali, e le vittime non subiscono lo stesso danno né patiscono lo stesso dolore. Ma forse bisognerebbe avere maggior empatia invece che andare a cercare, con lo sguardo del detective da salotto, che cosa non quadra. Perché così si finisce per fornire una giustificazione all’autore del reato: seppure non giuridica, risuonerà come un’attenuante sociale, dal valore altissimo. Pensiamoci.

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