U n ragazzo di 17 anni entra in classe a Bari e spara al professore pallini di plastica con una pistola. Una tredicenne di Cesena si rifiuta di far copiare i compiti e viene presa a calci e pugni dalle compagne. Nella Bassa Bergamasca una banda di giovanissimi, tra i 12 e i 14 anni, dà l’assalto a una fattoria, libera gli animali, incendia il fienile e taglia i fili elettrici dal quadro del trattore.

A Caivano un gruppo di minorenni violenta due cuginette di undici e 13 anni. A Palermo un altro branco di ragazzi tra i 17 e i vent’anni usa una violenza bestiale su una coetanea e poi se ne vanta su whatsapp. A Torino tre ragazzi abusano sessualmente su una giovane e, dopo, uno dice a lei, la vittima, prima di abbandonarla sul marciapiede: stavi dormendo, tutti facevano così con te, li ho visti e ho pensato che potevo farlo anche io.

A Bologna un giovane si suicida in diretta su Tiktok perché gli hater lo accusavano falsamente di pedofilia. Va da sè che il 25enne accusato di aver tentato di uccidere la fidanzata ventenne non è che l’ultimo di una lunga lista di giovani e giovanissimi che commettono reati molto gravi.

La cronaca mette in fila una serie di episodi e per chi legge la sensazione è che siano in netto aumento. Che cosa sta succedendo? Perché i minorenni e i poco più che maggiorenni si macchiano di reati tremendi, spesso peraltro con i genitori a difenderli? Lei era una poco di buono e provocava, non hanno fatto niente di male, e via con la sequela di dichiarazioni che conosciamo fin troppo bene.

A sentire don Ettore Cannavera, che con i ragazzi ha lavorato a lungo nel carcere minorile e che da decenni li accoglie nella comunità La collina di Serdiana, i ragazzi hanno bisogno di attenzione, affetto, considerazione. Innanzitutto da parte della famiglia poi dalla scuola, che valgono, però, solo 20 per cento della formazione. Il resto lo fa il mondo circostante, social inclusi. E se l’ambiente esterno è aggressivo, e per di più quell’aggressività premia, i ragazzi non faranno che seguire gli esempi davanti a loro. E se commettono uno stupro, o perfino un omicidio, sono capaci di vantarsene, lo fanno per davvero, anche in carcere, se si ritrovano tutti insieme. Salvo rannicchiarsi e piangere quando sono soli.

Che fare? La società un problema deve porselo dato che i giovani sono il nostro futuro. Quindi? Bisogna modificare il Codice penale, inasprire le pene, rendere imputabili pure i tredicenni? Non sembra questa la strada. Anche se, per esempio, in Francia poche settimane fa è successo un fatto clamoroso: la polizia ha fatto irruzione a scuola per arrestare un ragazzo di 14 anni colpevole di un gravissimo atto di bullismo su un coetaneo. L’episodio seguiva di qualche giorno il suicidio di un giovanissimo vessato dai teppisti, per cui, come dire?, la sensibilità sul tema in quel momento era altissima. Eppure, no: non può essere questa la strada. Anche se, va sottolineato con forza, la punizione ci deve essere, perché non può esistere un percorso di responsabilizzazione che porta alla cosiddetta rieducazione prevista dalla Carta costituzionale senza che si sia pagato per l’errore commesso. Ma poi serve altro. La Procuratrice del Tribunale dei minori di Cagliari Anna Cau punta il dito sulla mancanza di servizi necessari ad affiancare il percorso giudiziario del ragazzo che ha commesso reati. Le comunità sono poche e non rispondono alle esigenze, scarseggiano se si tratta di minorenni con problemi di abuso di alcol e sostanze stupefacenti, ma anche per chi ha fragilità psichiatriche.

Qualcuno ha pensato di mandarli a zappare, certo non quando commettono stupri, rapine od omicidi, ma quando cominciano a deviare con atteggiamenti prevaricatori o aggressivi. È successo in una scuola di Bologna dove, al posto della sospensione, che di fatto lascia gli studenti a casa senza far nulla, sono stati costretti a lavorare in un orto. Non è un caso unico. Basti pensare che all’istituto Einaudi di Senorbì lo fanno da tempo: il regolamento di istituto prevede punizioni alternative come il volontariato, azioni riparatorie al danno causato, piccoli lavori all’esterno.

La scuola, insomma, fa del suo meglio ma bisogna sottrarla alle accuse spesso infondate dei genitori che si ergono a sindacalisti dei figli, si tratti di un rimprovero o di un brutto voto. Ma chi può aiutare i genitori? Chi può loro suggerire che serve un’alleanza educativa tra scuola e famiglia? E che bisogna puntare sull’affettività e non sull’aggressività che oggi pervade la cultura dominante? A ben guardare, forse non bisogna partire dai ragazzi ma dagli adulti. E se davvero don Cannavera avvierà la comunità per insegnanti e genitori, come ha “minacciato” di fare, dovremmo iscriverci tutti. Di corsa.

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