Q uesto nuovo governo potrebbe essere definito il governo dell’“usato sicuro”. Non ci sono sorprese, infatti, né colpi di scena nella lista dei nuovi ministri che hanno giurato ieri, né formule segrete nascoste nell’organigramma, o alchimie diverse da quelle che abbiamo visto balenare nei giorni epilettici della sua conflittuale gestazione. Molti dei nuovi ministri - compreso il più importante, Guido Crosetto - vengono dal vecchio Popolo della libertà. Se è un rinnovamento, dunque, lo è ma solo nel senso del più celebre adagio moroteo: “Rinnovamento nella continuità”. Un ossimoro, dunque, un paradosso.

Ma c’è un motivo. Questo governo nasce in tempi di crisi, col bisogno di rassicurare (soprattutto all’estero) più che quello di stupire (soprattutto in casa). La squadra dei ministri ha un’età media sorprendentemente alta (sessant’anni), solo sei donne, e - curiosamente - la più giovane fra tutti è proprio lei, la ragazza prodigio partita dalla Garbatella per arrivare a Palazzo Chigi, dopo aver costruito una carriera che poggia su una solida gavetta: “Nella mia vita ho fatto di tutto, dalla barman alla babysitter”. Pochi ricordano che la futura presidente del Consiglio a vent’anni metteva insieme i suoi primi guadagni facendo la tata ai figli di Fiorello.

“Tutti i leader di tutte le forze del centrodestra hanno indicato la sottoscritta come presidente del Consiglio”, ha detto Giorgia Meloni, senza riuscire a trattenere, subito dopo, un sorriso, per quel vocabolo vagamente “questurile” che nell’emozione del discorso le era sfuggito.

M a che cos’è dunque questo “Meloni uno”, il primo governo formato da una donna nella storia della Repubblica italiana? Il più veloce a nascere dice con una battuta Sergio Mattarella. E anche il più travagliato nel suo concepimento, ci hanno raccontato le cronache. Non si poteva perdere un minuto e solo con una attenta regia di Sergio Mattarella la leader di Fratelli d’Italia ha potuto assemblare la sua squadra, prima ancora di essere incaricata ufficialmente. Per capire e decrittare cosa sia accaduto e quali rapporti di forza siano usciti da questa gestazione, adesso, dobbiamo usare diverse categorie, sia politiche che psicologiche. Perché c’è un doppio intreccio che ha complicato tutto nella coalizione che ha vinto le elezioni: da un lato infatti c’è un partito (guidato da una donna) che pesa più degli altri tre messi insieme (guidati da tre uomini). Non solo. Da un lato c’è il partito più giovane nell’attuale Parlamento (Fratelli d’Italia) e dall’altro il partito più antico di tutta la politica italiana (la Lega), l’ultimo superstite della Prima Repubblica.

E il dettaglio che racconta come questo non sia facile da metabolizzare, per nessuno dei protagonisti, ieri era lo scambio di sguardi maliziosi fra Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. La Meloni stava spiegando come non ci fossero condizionamenti, che gravavano sul suo esecutivo, e a Berlusconi alzava le sopracciglia e sgranava gli occhi cercando un consenso muto del leader della Lega. Salvini a sua volta ricambiava, alzando anche lui le sopracciglia. Come per dire: “Sehh”. Un gesto minimo, ma plateale.

È inutile girarci intorno: il Cavaliere è il grande sconfitto della partita che si è giocata in queste ore. Ha puntato sul tavolo da pokerista, alzando la posta, sperando di raggiungere due obiettivi politici, riassunti da due nomi. E ha perso entrambi le mani: non vedrà la sua fidata Licia Ronzulli ministro della Sanità (come sperava) e non avrà la sua ex avvocata Annamaria Bernini nella stanza del Guardasigilli (come desiderava a propria tutela, per via dei processi). Eppure, a ben vedere, ha perso molto anche Salvini: non ha avuto la poltrona di ministro dell’Interno (che desiderava più di ogni altra cosa) e vede il leghista più lontano dalle sue posizioni sulla poltrona più pesante del nuovo esecutivo (quella dell’Economia). Allo stesso modo Berlusconi si ritrova con il meno “putiniano” degli azzurri, Antonio Tajani, agli Esteri. Ecco dunque il primo punto politico: la Meloni si è scelta, nei partiti, non i nomi imposti dai leader, ma quelli che considerava i suoi interlocutori migliori. E ha fissato il suo dogma politicamente scorretto: “Berlusconi si è dimenticato di un aggettivo: non sono ricattabile”. In quella battuta sta tutta la distanza tra la nuova inquilina di Palazzo Chigi e i suoi alleati.

© Riproduzione riservata