“I sraele è in guerra. Questa non è un’operazione militare, né un altro round di combattimenti, ma una guerra. Ho ordinato il reclutamento di un’ampia riserva e la mobilitazione delle forze per contrattaccare con forza in un modo che il nemico non ha mai sperimentato, siamo in guerra. Vinceremo”. Queste ferme e inequivocabili parole sono parte delle prime dichiarazioni ufficiali del Ministro Benyamin Netanyahu che di fatto hanno avviato l’operazione militare denominata “Spade di ferro”. Una prima, necessaria risposta per rassicurare la popolazione israeliana.

M ilioni di persone ancora sotto shock per gli improvvisi e imponenti attacchi che, preceduti da una pioggia di razzi sparati dalla Striscia di Gaza hanno colpito diverse località del centro-sud del Paese, hanno favorito una serie di attacchi di miliziani di Hamas in territorio israeliano. Un attacco organizzato su vasta scala e denominato “Diluvio Al-Aqsa” che ha preso di sorpreso le forze di sicurezza e il governo di Tel Aviv, fino a poche settimane fa al centro di pesanti critiche interne. Diverse e sempre più partecipate, infatti, sono state le dimostrazioni di protesta contro la revisione del sistema giudiziario proposta dal partito conservatore-nazionalista del Likud, guidato dal primo ministro Netanyahu, il più criticato, ma longevo nella storia del Paese, avendo servito per oltre 16 anni. E non è forse un caso che l’attacco di Hamas sia avvenuto in questi momenti, politicamente controversi per Israele: la crisi giudiziaria con conseguente messa in discussione di valori condivisi fin dalla sua nascita, come l’indipendenza della Corte Suprema e il bilanciamento dei poteri ha infatti evidenziato una lotta molto più profonda che divide e mina lo stesso Stato di Israele, complice una persistente crisi politica che ha favorito l’emergere di partiti sempre più condizionati dal sionismo religioso che intende rendere Israele uno Stato veramente ebraico. Ciò ha inevitabilmente favorito lo sdoganamento di politiche più aggressive nei confronti della soluzione dell’atavico problema della convivenza con i palestinesi.

Ancora una volta, dunque, l’area mediorientale è al centro di un conflitto dagli esiti imprevedibili esiti che richiama inevitabilmente alla memoria i quattro conflitti arabo-israeliani succedutisi sin dal 1948, ossia dalla nascita di Israele. Lo stato ebraico, infatti, ha combattuto con i limitrofi stati arabi per venticinque anni, fino al 1973, quando nel giorno della festa ebraica del Kippur, un’offensiva a sorpresa di truppe egiziane e siriane inaugurò la quarta guerra arabo-israeliana, che avrebbe dovuto cancellare la vittoria militare di Tel Aviv a seguito della Guerra dei Sei Giorni sugli eserciti arabi che minacciavano di annientarlo (1967). All’iniziale successo seguì una decisa controffensiva dell’esercito israeliano che lo portò a penetrare in profondità nel territorio egiziano, fino a giungere a pochi chilometri dalla capitale; ciò prima che il Consiglio di sicurezza dell’Onu ordinasse il cessate il fuoco e favorisse le trattative di pace. Sin dalla conquista israeliana della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, che ha privato i palestinesi di territori ritenuti imprescindibili per la nascita di uno Stato indipendente, la questione riguardante la sicurezza dei confini di Israele è tesa. Segnali evidenti dell’inevitabile escalation erano tuttavia avvertibili se si osserva il costante peggioramento della situazione al confine dall’inizio dell’anno: oltre duecento palestinesi sono morti in operazioni militari israeliane in seguito a scontri con l’organizzazione militante palestinese Hamas, che governa l a Striscia di Gaza dove, secondo dati Onu, oltre due milioni di persone vivono in condizioni di estrema povertà.

Università di Cagliari

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