I l problema è sempre lo stesso: non sanno accettare un no. Non sanno perdere, non sanno reagire davanti alla sconfitta. Così un trentenne di bell’aspetto con un bel lavoro nella città più ricca d’Italia uccide la sua compagna – incinta di sette mesi - per poi presentarsi, libero, dice proprio così, a casa dell’amante, ignara di essere tale fino a quando gli indizi disseminati per casa l’hanno portano a indagare. E a contattare l’altra. Le due donne si sono viste, parlate, abbracciate e hanno preso la stessa decisione: fine. Che affronto. Come si permettono?

È lui che detta il ritmo della sua e della loro vita. Invece lo hanno escluso entrambe: la sconfitta è doppia. Alessandro Impagnatiello ammazza la prima e poi corre dalla seconda che, però, intuisce qualcosa di brutto, si fa scortare dai colleghi fino a casa e quando lui bussa lei non apre. Ha paura, una tremenda paura di quell’uomo che l’aveva messa incinta e l’aveva convinta ad abortire: le diceva di aver lasciato l’altra e, quando era stato scoperto durante una vacanza, aveva giurato di averlo fatto solo per aiutare la ormai ex, depressa. Ogni tanto fermiamoci e riflettiamo su come i fedifraghi descrivono le donne che tradiscono per tenere il piede in due staffe.

La vicenda di Senago è di quelle che toccano il cuore. Abbiamo visto anche lo strazio della madre dell’assassino, arrivata al punto di definire il figlio un mostro. Chissà quali sensi di colpa, “dove ho sbagliato, cosa potevo fare, cosa non ho capito”? Ed è proprio sulle parole di questa donna dal cognome sardo che viene da soffermarsi, perché in quelle lacrime, in quel dolore – senza nulla togliere a quello indicibile dei familiari dell’uccisa – sta l’origine di tutto. Dove nasce il femminicidio? Dove si alimenta, dove cresce? Nella famiglia che coccola i ragazzi e non insegna a superare le difficoltà della vita e neppure il rispetto dell’altra e confonde amore con possesso, sopportare è una virtù e allora bisogna evitare i conflitti, non provocare, assecondare, sminuire? Se lui grida zitta, sennò è peggio; se alza le mani vabbé, uno schiaffo, che sarà mai; se ti umilia, in fondo sono solo parole; se poi va avanti fino a farti finire al pronto soccorso, perdonalo, perché lo sai che ti ama. E poi: ci sono i figli, hanno bisogno di un padre e di una madre, non scappare al primo ostacolo. Invece no: fuggi, subito, di corsa, non al primo colpo ma al primo urlo, alla prima parola storta, la prima volta che quello che credevi amore si rivela un misero calesse. A vent’anni come a 50, in città come in campagna, tra ricchi come tra poveri le dinamiche sono sempre le stesse: l’uomo narcisista abituato sin da piccolo agli applausi non accetterà mai un rifiuto. Non lo sa fare. Non è abituato, non è educato. Se la relazione finisce lo decide lui, che diamine, e se ha due donne e le inganna entrambe è lui che deve scegliere chi deve abortire e chi starà ancora al suo fianco. Giulia Tramontano - la vittima del brutale femminicidio di Senago - e l’altra donna si sono ribellate a tutto questo. Giulia lo ha scoperto, lo ha detto ai genitori, alla sorella, a lui. Ha deciso di lasciarlo nonostante la gravidanza, il figlio lo avrebbe cresciuto da sola, meglio così che con un vigliacco, e certo non immaginava come sarebbe andata a finire. Ma anche l’altra donna, 23 anni, collega del killer, ha voluto sapere in che storia si fosse infilata. Svelato il grande inganno non ha più creduto alla bugie. Certo, non si può correre dai carabinieri ogni volta che si decide di lasciare il proprio compagno. Giulia aveva raccontato tutto perfino alla suocera, che poteva fare di più? Niente. Ha fatto quello che poteva, doveva e sentiva. Non è su Giulia e le tante vittime come lei che dobbiamo lavorare, ma sui troppi Alessandro. E dobbiamo farlo prima che si trasformino in killer. Bisogna agire a casa, a scuola, al lavoro, in chiesa, sui giornali, in tv, ovunque. Prima. Dopo sono solo parole.

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