L e banche centrali continuano la loro lotta contro l’inflazione che non ne vuole sapere di calare in modo significativo e soprattutto si sta modificando profondamente. Dopo la Fed, la banca centrale americana, la Bce ha alzato ieri i tassi anche se la maggior parte degli analisti concorda sul fatto che il trend rialzista sia ormai agli sgoccioli. I numeri però fanno paura: 693 miliardi di ricchezza bruciata e 100 miliardi persi di potere d’acquisto a causa dell’inflazione, spiegano Censis e Confcooperative in un rapporto presentato proprio ieri.

U na famiglia su 5 (700 mila su 3,3 milioni) in difficoltà nel pagamento delle rate del mutuo e un calo consistente dei prestiti alle imprese con un divario che cresce (anche in termini di costi sui soldi chiesti al sistema creditizio) tra le piccole, medie e grandi imprese. Certo, qualche segnale di rallentamento dei prezzi si è avuto e certamente le ragioni che hanno generato questa fiammata nell’ultimo anno e mezzo non sono più le stesse. Si è sempre detto, infatti, che energia e guerra erano alla base dei rincari. Il conflitto in Ucraina e la dipendenza energetica dalla Russia della gran parte dei Paesi europei ha certamente fatto salire alle stelle i prezzi del petrolio, del gas e di conseguenza dell’elettricità. Oggi tutti i Paesi europei hanno adottato una strategia energetica differente con una minore dipendenza dalla Russia e maggiore attenzione al continente africano, mentre per quanto riguarda il petrolio gli Stati dell’Opec hanno deciso a più riprese di tagliare la produzione proprio per cercare di mantenere alto il livello dei prezzi del greggio (e di conseguenza resta alto il prezzo di benzina e gasolio in questi giorni di esodo estivo).

Lo scenario dunque è differente rispetto all’inizio dell’anno eppure le banche centrali continuano a tirare su i tassi nonostante le proteste e le difficoltà delle famiglie (che secondo l’Istat hanno perso sei punti di potere d’acquisto) e delle imprese, in particolare quelle più piccole. I rincari delle rate sui mutui, per chi aveva optato per il tasso variabile, sono diventati quasi insostenibili, mentre le aziende hanno difficoltà a ricorrere ai prestiti per finanziare gli investimenti. Si rischia di passare da una crescita sostenuta, grazie all’uscita dalla pandemia e alla ripresa di molti servizi, a una decrescita. Le cause sono da ricercare nella possibile riduzione dei consumi proprio per i prezzi troppo alti, a iniziare da alcuni beni alimentari su cui pesa anche lo stop all’accordo sul grano ucraino che fino al 17 luglio aveva salvaguardato le forniture pure ai Paesi dell’Africa.

Con l’aumento dell’inflazione, peraltro, molte aziende, quelle più forti, si sono rafforzate ulteriormente, mentre quelle più deboli sono sparite o rischiano di farlo perché oggi hanno più difficoltà ad accedere a finanziamenti ed espandere la loro attività. In poche parole, in Europa l’inflazione sta limitando la concorrenza e questo rappresenta un problema perché incide sui consumi e di conseguenza anche sui salari. Le imprese che non hanno necessità di ricorrere al sistema creditizio sono le stesse che fanno extraprofitti, mentre le altre, incapaci di seguire le curve della domanda, spariscono. Le regole del Vecchio Continente sono più rigide e non sempre favoriscono le dinamiche dei mercati, con un riequilibrio sul fronte della concorrenza, basti pensare a quanto accaduto con i colossi digitali oppure alle compagnie aeree low cost che una volta conquistate ampie fette di mercato, ora dominano, davanti ad avversari che rischiano di sparire. Il pericolo è che si verifichi un allungame nto della spirale inflazionistica a discapito soprattutto dei lavoratori dipendenti, colpiti due volte dall’aumento dei prezzi: da un lato il loro stipendio resta uguale e dall’altro spendono di più. Una tassa occulta che gonfia i profitti di chi domina monopoli e oligopoli.

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