D opo mesi di caos politico, a Londra si è arrivati ad un momento storico: Rishi Sunak, a soli 42 anni, è la prima persona di etnia non bianca a diventare primo ministro. Nato nel sud dell’Inghilterra da genitori originari del Punjab in India, Sunak incorona il sogno del Regno Unito multiculturale, farcito comunque di studi in scuole private e privilegi, proprio nel giorno in cui si celebra la festa religiosa Hindu di Diwali.

E nuovamente, dopo tre prime ministre donne, questo primato delle pari opportunità appartiene al partito conservatore. Ciò forse aiuterà ad offuscare anche l’altro primato del partito, l’aver cambiato tre primi ministri nello spazio di sette settimane. E magari fare anche dimenticare che in effetti Sunak non l’ha votato nessun cittadino. Gli unici voti a lui necessari per quella che si potrebbe definire una “elevazione” sono stati quelli dei suoi colleghi, i parlamentari conservatori. Liz Truss, di cui la cosa migliore che si possa dire della suo governo sia stata le brevità, aveva comunque ottenuto 80 mila voti dai membri del partito conservatore. Ovviamente le richieste del partito Laburista per una elezione nazionale sono state inutili: più della metà dei parlamentari conservatori sarebbero stati spediti a casa.

Il Regno Unito è molto scosso da settimane di instabilità politica ed economica, un periodo in cui il Paese ha dovuto guardarsi allo specchio e rendersi conto del vero costo della Brexit in termini economici e di influenza internazionale. Per questo Rishi Sunak, ex ministro dell’Economia nel governo Johnson, dà almeno una speranza di stabilità. Sconfitto da Liz Truss solo un paio di settimane fa per aver cercato di far capire alla base conservatrice che abbassare le tasse in un momento simile sarebbe stato un disastro, ha ora l’aria calma di qualcuno che pensa “te l’avevo detto”.

Lo aspettano tempi difficili. O meglio, i tempi duri dovranno affrontarli i milioni di britannici fra inflazione e tassi di interessi in aumento. Sunak dovrà chiedere agli elettori di fare sacrifici. Il fatto che lui e la moglie abbiano letteralmente più soldi di Re Carlo III potrebbe lasciare sulle sue richieste una traccia di ipocrisia.

Nelle ultime settimane, mentre ai britannici girava la testa per tutte le scosse politiche ed economiche, è iniziato la moda del “we are the new Italy!’. Noi siamo la nuova Italia!”. Evidenziare il nostro Paese come simbolo di instabilità politica non è niente di nuovo. Era il disco rotto che noi italiani all’estero dovevamo sorbirci ogni volta che si parlava di politica: “Ma ricordaci, quanti governi avete avuto voi italiani dalla seconda guerra mondiale a oggi?” Condito con un sorrisino sarcastico, questa era la domanda retorica per eccellenza. Non so quante volte ho dovuto sentirla.

I media inglesi hanno raggiunto il picco con la copertina dell’Economist che ritrae Liz Truss con elmo e tunica romana, con una pizza condita con i colori della bandiera britannica in una mano, e nell’altra, una forchettata di spaghetti al posto della lancia. ‘Welcome to Britaly”. Mancava solo il mandolino. In effetti ci sono sempre più analogie fra il nostro Paese e il Regno Unito: i mercati finanziari che mostrano il loro impatto su decisioni politiche; una disparità economica fra nord e sud; una popolazione sempre più anziana che mette pressione sul sistema sanitario; infrastrutture cigolanti. E ovviamente governi, ministri e leader che cambiano con troppa regolarità.

Ma se da noi l’instabilità politica viene in parte da un sistema di coalizioni che possono spesso incrinarsi, nel Regno Unito l’instabilità a cui stiamo assistendo è concentrata in un solo partito, i conservatori, e dalla loro necessità di far fiorire la Brexit. A 6 anni dal referendum, gli svantaggi aumentano e i vantaggi sembrano sempre di più un miraggio.

Ed è qui che i britannici non vogliono accettare la realtà: i paragoni con l’Italia non spiegano fino in fondo la situazione. Forse molti dei loro problemi si potrebbero definire “italiani”. Ma l’arroganza che li ha portati all’auto-lesionismo di un salto nel buio come la Brexit, beh, quella è tutta britannica.

Giornalista a Londra

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