N on si capisce la cosiddetta svolta pacifista di Mario Draghi, che è diventata posizione pubblica durante la sua visita a Joe Biden in America, se non si prova interpretare tutti insieme alcuni degli avvenimenti delle ultime ore, apparentemente scollegati tra di loro.

Si tratta di notizie che arrivano da tavoli separati, da fronti diversi, da protagonisti antitetici, ma che messi in fila compongono un unico mosaico.

Da un lato c’è la presa di posizione di Erdogan che gela come una doccia scozzese (e, di fatto con un veto simbolico) l’imminente ingresso della Svezia e della Finlandia dentro la Nato. Dall’altro, c’è un segnale che è molto più importante di quanto non potrebbe apparire a prima vista: gli Stati Uniti, per la prima volta dall’inizio della crisi, hanno lanciato un messaggio negoziale diretto a Mosca, ponendo sul tavolo l’ipotesi di una tregua.

Ancora più del contenuto, in questo caso, conta il riconoscimento reciproco come protagoniste della crisi, tra le due superpotenze, che fino a ieri non c’era mai stato (e che Putin chiedeva da due mesi). L’ultimo elemento è la cornice entro cui si è manifestata la nuova posizione di Draghi, e la linea distinta di Francia e Germania rispetto alla linea dura più “atlantista” di americani e britannici.

Ecco perché questi tre elementi vanno letti tutti insieme: Draghi non è rimasto folgorato sulla via di Damasco, non ha smentito la linea che aveva tenuto fino a questo momento, e nemmeno messo in discussione la sua vicinanza a Biden.

S i è semplicemente riconnesso alla piattaforma diplomatica informale franco-tedesca, in un quadro in cui per la prima volta, nel campo occidentale la linea dei cosiddetti “falchi” (coloro che sognano una prosecuzione indefinita del conflitto) mostra la corda. Questa fase di stallo, paradossalmente, vale anche per gli altri “falchi”, quelli che sognano di vincere la guerra sia in Russia che in Ucraina. Così, per spiegare questo improvviso mutamento di scenario, forse sono d’aiuto le parole di un esperto militare, il professor Andrea Margelletti (presidente del Cesi, uomo di indubbia fede atlantista) che, quando deve spiegare cosa sta accadendo sui fronti di guerra in queste ore lo riassumere così: «Gli ucraini, come noto, sono stati la vera sorpresa di questa guerra, stanno tenendo benissimo il campo, possono contare su forniture belliche praticamente illimitate, da parte dei Paesi della Nato, ma hanno - aggiunge Margelletti- un organico militare che si assottiglia di ora in ora. E che non ha possibilità di essere rimpiazzato in maniera strutturale». I russi invece hanno sicuramente sbagliato la loro strategia di partenza, non sono riusciti ancora a conquistare tutto il Donbass, ma hanno alle spalle una disponibilità quasi illimitata di truppe di ricambi, e una diversa percezione del concetto di perdita. Possono cioè, detto in termini più brutali, sopportare un numero elevato di vittime, senza grandi contraccolpi di opinione pubblica.

Ecco dunque perché, da questa situazione asimmetrica, può scaturire un potenziale scenario di convenienza reciproca: gli ucraini hanno il vantaggio tattico che il sostegno della Nato gli ha garantito, ma hanno più difficoltà nella prospettiva di un conflitto di lungo termine (e non possono permettersi di veder annientato il nucleo duro del loro esercito). I russi stanno pagando i costi dei loro errori iniziali, ma possono impegnare un numero di effettivi, una quantità di armamenti tale, da garantire una risorsa: la possibilità di durare. In sintesi: gli ucraini hanno gli orologi, i russi hanno il tempo.

Ecco dunque uno scenario, in cui viene meno la condizione che ha tenuto accesa, fino ad oggi, la fiamma della guerra: sia Putin che Zelensky erano convinti di poter vincere nel breve periodo, ottenendo condizioni tali da negoziare da una posizione di forza. In questo varco creato dagli eventi si apre per la prima volta una speranza di pace. Ma è un varco a tempo: o lo si attraversa subito, per mettersi intorno un tavolo di pace, oppure si richiude. E a quel punto l’Ucraina diventa un nuovo Afghanistan.

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