U n giorno forse ci sveglieremo e ci accorgeremo delle crociate all’inverso fatte dall’Unione Europea, cui noi partecipiamo quasi inconsapevoli. Eppure i risultati sono già sotto i nostri occhi: la ricerca ha toccato livelli imbarazzanti rispetto a quanto si fa nel resto del mondo, condannandoci a un futuro di scarsa innovazione e di dipendenza tecnologica, qualsiasi sia la direzione che s’intenderà prendere; l’indebitamento continua a salire (Italia 152% del Pil, Francia 114%) mentre aumenta il divario tra ricchi e poveri, la classe media si assottiglia e grandi fasce di popolazione sopravvivono nel disagio.

D elle 100 maggiori società mondiali per capitalizzazione borsistica, solo 6 sono dell’UE che ha circa 450 milioni di persone (63 sono invece americane, con 330 milioni di abitanti; 4 inglesi; 3 svizzere, il triplo delle tedesche), segno di una deindustrializzazione che avrà un’ulteriore impennata con la transizione ecologica; i prodotti finanziari derivati rappresentano una minaccia mortale da cui stentiamo a liberarci. La Deutsche Bank, che nel 2008 ne deteneva per un valore corrispondente a 20 volte il Pil della Germania, sembra averne ridotto neanche la metà, e anche per questo viene attaccata. Per essere chiari coi numeri, un eventuale default costringerebbe tutti i tedeschi a lavorare per 10 anni per ripagarne il debito; le richieste Nato di incremento delle spese militari porteranno a un ulteriore indebitamento e a una maggiore dipendenza giacché come Europa non siamo in possesso delle più avanzate tecnologie. Si noti che la spesa militare totale europea, includendo anche il Regno Unito e la Norvegia, è aumentata del 25% negli ultimi 6 anni e attualmente – dati 2020 – è di 378 miliardi di dollari, 5 volte quella della Russia.

A fronte di un quadro non certo confortante, il risultato più drammatico: l’Europa è in grave declino demografico. Le analisi di Eurostat evidenziano infatti come il calo sia stato sinora calmierato dall’afflusso di migranti e soprattutto di rifugiati ucraini, mentre i tassi di fertilità e di mortalità indicano un’importante riduzione di popolazione per i prossimi 50 anni.

Che Europa stiamo dunque disegnando per i nostri figli e nipoti? L’impressione che rimane è quella di una grande, pericolosa scommessa basata su presupposti emotivi e utopistici. Qualcuno sta ancora sognando la California degli anni ’60, la libertà dei figli dei fiori, una società di diritti, verde e non inquinata, e non si chiede ad esempio chi e come assisterà le persone di età superiore ai 65 anni che si avviano a rappresentare più di un terzo della popolazione, chi produrrà beni e assicurerà servizi quando quelli in età lavorativa saranno una minoranza e ci saranno più persone d’età superiore agli 80 anni che d’età inferiore ai 20; chi guiderà i bus urbani e ritirerà i rifiuti, chi soprattutto assicurerà le necessarie manutenzioni, in senso lato, a tutti i sottosistemi di cui è composta una società complessa, destinati a invecchiare come le persone. Parliamo di organismi fondamentali quali la formazione, le infrastrutture, la pubblica amministrazione, la salute, lo sport, ecc.

Così, incapaci di ottenere risultati concreti dai progetti che pensiamo erroneamente di dominare, spaventati dal declino che avanza attorno a noi, derivato peraltro dalla nostra superficialità, ci rifugiamo a sognare una società libertaria che magicamente si sostiene senza lavorare, una riedizione rivista dell’era dell’Acquario. Riflettiamo su un fatto: tutto il bello sta andando a racchiudersi ormai nelle fughe dalla realtà, in primis la pubblicità, il metaverso, i social. ecc. Si fugge, delusi, in mondi virtuali mentre quel che si sta reali zzando in pratica è un Eliseo per quella piccolissima percentuale di ricchi che potrà permettersi una vita lunga e sana, lasciando a noi altri lo spazio spazzatura, le briciole del benessere.

Concludo riportando la convinzione che si va oggi chiarendo in America come dopo una sbronza: il solo esito prevedibile per i fondi che investono in attività ESG (investimenti sostenibili nell’ambiente, nel sociale e nella governance) è un altro acronimo, RIP, riposi in pace – ovvero il fallimento.

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