“C hi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!”, ammoniva Nanni Moretti in uno dei suoi indimenticabili film, “Palombella rossa”. Facile ripensare a questa frase, leggendo la sentenza con la quale la Corte di Cassazione ha stabilito che chi arriva in Italia per richiedere asilo non può essere definito “clandestino” nemmeno in un manifesto politico. I giudici lo hanno scritto a chiare lettere lo scorso 16 agosto respingendo un ricorso della Lega contro la condanna inflitta in primo grado e in appello relativa ad una manifestazione di 7 anni fa.

M anifestazione durante la quale veniva contestata l’assegnazione di 32 richiedenti asilo a un centro di assistenza in provincia di Varese. “Saronno non vuole i clandestini”, era lo slogan sui manifesti leghisti.

È una gran bella notizia, che non va lasciata cadere specie per chi lavora con le parole, non solo per chi le usa per fare campagna elettorale e costruire successi mediatici e politici. “Gli stranieri che fanno ingresso nel territorio dello Stato italiano perché corrono il rischio effettivo, in caso di rientro nel Paese di origine, di subire un grave danno – argomenta la Cassazione - non possono a nessun titolo considerarsi irregolari e non sono dunque clandestini”. E richiamando la Convenzione di Ginevra, definisce il caso come un “comportamento idoneo a offendere la dignità della persona e a creare un clima degradante, umiliante e offensivo”.

Per la Treccani “clandestino” è un marchio, un logo, uno stigma, una parola chiave utilizzata in modo sempre più estensivo dalla retorica xenofoba e razzista per costruire muri e frontiere simbolici tra “noi” e “loro”. Non so se sia la prima volta che un giudice entra nel merito del linguaggio, delle parole usate nell’agone poltico. Probabilmente non lo è, ma è estremamente interessante. La parola “clandestino” viene dal latino clam (di nascosto) e dies (di giorno): la Cassazione stabilisce che nessuno può essere definito in questo modo. Le persone che sbarcano in Italia, di volta in volta, sono rifugiati, richiedenti asilo, migranti e profughi, ma nessuno – nel nostro Paese – deve essere bollato come “nascosto di giorno”.

Certo non sarà vietato, e non lo è, continuare a chiamarli così, e c’è chi continuerà a farlo. Ma è comunque un primo tentativo di ripulire il discorso politico da una parola discriminatoria, perché il suo utilizzo induce a ritenere illegale o irregolare una condizione. La politica non può bollare come vuole le persone umane, non può affibbiare etichette umilianti a uomini, donne e bambini in fuga dal loro Paese. Lo status legale di queste persone o è riconosciuto o è in attesa di esserlo: in entrambi i casi non ha alcun senso definirli clandestini, da un punto di vista linguistico prima ancora che giuridico. “Il diritto alla libera manifestazione del pensiero – argomenta la Corte - non può essere equivalente a, o addirittura prevalente, sul rispetto della dignità personale degli individui”. Non si può dire tutto e il contrario di tutto in nome di una malintesa libertà di espressione.

Molto – da questo punto di vista – hanno fatto e possono fare le redazioni giornalistiche, che sono oggi tra i pochi strumenti rimasti validi per veicolare la lingua e insegnare, almeno indirettamente, il significato delle parole. Da tempo una parte della categoria giornalistica richiama il pericolo insito nell’uso di certi termini. La violenza del linguaggio – utilizzata anche sui social – per descrivere alcuni fatti di cronaca mostra che la responsabilità degli operatori dell’informazione è grande. Sotto una parola violenta si nasconde una discriminazione, una differen za, un recinto.

Con le parole raccontiamo la realtà e diamo un volto alle persone: la sentenza della Cassazione ricorda una volta di più, alla classe politica e a tutta la società, che vanno usate bene.

Presidente Corecom Sardegna

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