L a settimana scorsa davanti al Tribunale penale di Potenza è accaduta una incredibile vicenda di “malagiustizia” che non può passare sotto silenzio. Ecco i fatti: un avvocato, che l’indomani mattina aveva un processo davanti al collegio penale, la sera prima viene colpito da fortissime coliche, al punto da richiedere l’intervento del medico, che gli redige un certificato attestante l’impossibilità di presentarsi in udienza. L’avvocato, non essendo in condizioni fisiche di difendere il suo assistito, avvisa quindi un collega di sostituirlo.

E invitandolo anche a chiedere ai giudici un rinvio a causa dell’assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento. In udienza, il pubblico ministero, non prestando fede né al difensore, né al medico e nemmeno al suo certificato, chiede al Tribunale una visita fiscale per verificare le condizioni di salute dell’avvocato. Ma i giudici, tuttavia, accolgono la richiesta di differimento dell’avvocato, anche perché il rinvio non può causare problemi allo svolgimento del processo, dal momento che il legittimo impedimento del difensore interrompe il corso della prescrizione e quindi non vi è nessun rischio che il reato si prescriva.

Ma il pubblico ministero, purtroppo, in Italia, talvolta conta più del giudice. Infatti, mentre per i giudici l’avvocato non poteva essere presente in udienza, per il pubblico ministero, invece, la malattia sarebbe immaginaria ed il certificato medico un falso. Pertanto, lo stesso pubblico ministero ordina la perquisizione dello studio del medico che aveva redatto il certificato attestante l’indisposizione, convoca presso la polizia giudiziaria il sanitario e poi, una volta fattolo tradurre, come un delinquente, nella caserma dei Carabinieri, gli sequestra il telefonino, evidentemente per controllarne il contenuto, privandolo oltretutto di uno strumento essenziale sia per l’App Spid di cui necessitava per il suo lavoro, sia per la firma sui certificati di fine quarantena.

Ma non finisce qui. Perché alle 14 si presenta presso la casa dell’avvocato un altro medico, scortato da una pattuglia di Carabinieri. Alla richiesta di spiegazioni, il sanitario risponde di dover effettuare una visita fiscale su mandato del pubblico ministero. L’avvocato, non avendo nulla da nascondere, accetta di farsi visitare, scoprendo però di essere addirittura stato iscritto dalla Procura nel registro degli indagati con l’accusa di “false dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’Autorità giudiziaria”, un reato punito fino a 6 anni di reclusione. Come se non bastasse, lo stesso pubblico ministero dispone gli interrogatori a tappeto di tutti i suoi familiari, dal figlio al fratello, iniziando dall’anziana madre ultraottantenne, affinchè riferissero sulle condizioni di salute del loro congiunto. Alle otto di sera, un’altra pattuglia di Carabinieri si reca nello studio dell’avvocato per acquisire le immagini della video sorveglianza, scoprendo però che le telecamere non funzionano. Questa “brillante operazione” mostra la sovraesposizione del pubblico ministero sul giudice e l’impotenza di quest’ultimo a farvi fronte. Si è trattato di un’indagine non solo inutile, ma “dispettosa” e “muscolare” verso il giudice e in danno del difensore, oltretutto compiuta a spese di noi contribuenti.

Episodi come questo, per quanto isolati, non fanno certo accrescere la fiducia dei cittadini nella magistratura. E non servono riforme per evitare che simili disdicevoli vicende si ripetano. Basta sanzionare adeguatamente chi va deliberatamente oltre le righe.

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