S ino a qualche anno fa la Francia non solo offriva energia elettrica ai cittadini e alle imprese a prezzo stracciato, ma addirittura esportava il 20% della propria produzione a diversi Paesi, tra cui l’Italia. Il mese scorso la Francia, temendo i razionamenti del 2023, ha dovuto negoziare un accordo d’importazione dalla Germania di energia elettrica prodotta dunque nella Ruhr con centrali a carbone o a gas. Oltre alla disparità di prezzo rispetto al passato, sono da considerare le conseguenze sull’effetto serra.

Questo spezzone di film si ripete più o meno in tutta l’Europa, Italia compresa, ogni nazione con le proprie peculiari strutture e caratteristiche. La questione non è solamente ecologica ma diventa sanitaria: L’Economist stima che il prossimo inverno la penuria d’energia causerà in Europa 100mila decessi supplementari tra la popolazione anziana (e, ove confermata, altrettanti morti all’esplosione del caldo).

Tra la situazione di qualche anno fa e oggi non c’è solamente la guerra in Ucraina (dovremmo ammettere che l’arma energetica di Putin stia funzionando molto meglio dell’artiglieria e dei missili), ma anche le precedenti decisioni riguardo alla transizione ecologica.

D ecisioni prese sull’onda dell’emotività e degli slogan e non sulla base di un approfondito progetto strategico. La chiusura di decine di centrali nucleari, lo stop alla ricerca e il mancato aggiornamento di quelle attive sta infatti causando un’estesa fragilità del sistema economico europeo, con ripercussioni sull’industria e sull’agricoltura che diventeranno ancora più pesanti nel prossimo futuro (per riportarsi a una situazione normalizzata sembra siano necessari una decina d’anni).

Le utopie ecologiche e le irrazionali paure indotte stanno in effetti riducendo la nostra capacità produttiva, industriale e agricola (si rendono impossibili svariate categorie di produzioni), stanno minando la ricchezza complessiva e il nostro potere di acquisto, tutto ciò aumentando comunque le nostre dipendenze dall’estero.

Il fatto ad esempio che l’Italia stia faticosamente trovando alternative alle importazioni dalla Russia non implica infatti una nostra minore vulnerabilità e tanto meno una raggiunta autonomia.

Il problema delle materie prime, sino a ieri colpevolmente trascurato da una Unione Europea ormai a rimorchio degli eventi, si porrà decisamente per il rame – la cui produzione, indispensabile per auto e casa, è più concentrata di quella del petrolio –, per il litio e per tutti i materiali necessari a captare, gestire e trasportare l’energia del sole, del vento o delle maree (trascuro in questa sede i prodotti per l’agricoltura che richiedono una trattazione a parte).

Si evidenziano dunque tutte le contraddizioni del non-piano che è stato prospettato e gonfiato mediaticamente sino a farlo apparire razionale: da un lato, col trattato di Parigi si mettono limiti all’aumento della temperatura del globo; dall’altro le azioni in corso (comprese quelle di adattamento dei Paesi allo stesso aumento di temperatura, si pensi alla produzione delle coibentazioni) conducono in direzione esattamente contraria. Si fissa al 2035 l’uscita dal mercato delle automobili tradizionali, ma non si considera che il costo delle materie prime richieste per le auto elettriche aumenterebbe consequenzialmente rendendo l’acquisto di queste ultime un fenomeno puramente elitario (qual è dunque l’obiettivo, rovinare irrimediabilmente il settore attuale?).

Si combatte il nucleare, considerato il vero satana, quando non esiste nessuna controprova scientifica che nei prossimi cinquant’anni 8 miliardi di persone possano vivere di sole energie rinnovabili. Si fantastica di un mondo verde (esiste già una benzina verde, evviva) quando qualsiasi produzione agricola – non finalizzata a viziare alcune centinaia di milioni di persone, ma a nutrire i rimanenti miliardi di anime – necessita di quantità immense di energia.

Ripeto: qual è l’obiettivo di questo piano dal sapore fiabesco e adolescenziale, forse una rarefazione demografica a partire dalla popolazione anziana a reddito basso? Sarebbe il risultato più probabile.

Volendo parlare della nostra Sardegna, stanti le dipendenze, le difficoltà di approvvigionamento e l’invasività dell’eolico, una soluzione ragio nevole sarebbe riprendere in mano con forza la partita del Galsi e realizzare in collaborazione con l’Algeria il metanodotto progettato già vent’anni fa. Il progetto, oltretutto, potrebbe essere aggiornato con la possibilità di veicolare in futuro l’idrogeno verde.

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