N on c’è dubbio alcuno che da alcuni anni a questa parte, nella coniugazione dei tempi della politica, sia scomparso il futuro e che ogni intervento trovi solo riferimento al presente, o, più spesso, al passato prossimo. In effetti, di quel che si potrà realizzare domani, o posdomani, nessuno si occupa più, perché sembrerebbe dimenticato, o rimosso, il senso alto e coinvolgente della politica: governare in un presente proiettato verso il futuro.

La causa? Per molti osservatori la si indica innanzitutto nella perdita d’identità, per via d’aver sopravanzato il vantaggio elettorale alle capacità amministrative, per cui ormai sono solo i voti (quanti se ne potrebbero ottenere) a motivare gli interventi e le azioni di governo.

Gli esempi disponibili sono tantissimi, ed anche in questa tornata elettorale, con le promesse ad effetto e con i sintetici slogan propagandistici alla maniera dei tortellini o dei callifughi (pronti-credo-scegli), se ne trova una chiara dimostrazione. Lo si evince ancora dal fatto che ogni intervento, promesso o proposto, appare come una sorta di tamponamento, o di ristoro, per le disavventure subite o per le difficoltà in atto.

L a conferma la si ricava proprio da quest’involuzione che ha portato la politica, sempre più politichetta, a puntare sull’effetto bancomat per venire incontro alle pretese clientelari e sulle promesse più o meno mirabolanti, azioni, queste, che denunciano solo debolezza di pensiero e incapacità di governo.

Al contrario, non bisognerebbe dimenticare che alla “vera” politica spetterebbe, per definizione e come priorità, il compito (che è, poi, un diritto-dovere) di guidare il presente per poter conseguire un futuro di progresso. E non, come oggi accade, di limitarsi a rappezzare ed a rammendare i buchi e gli strappi subiti , talvolta in modo anche un po’ stravagante. Lo ha scritto proprio in questi giorni sul milanese Corriere della sera anche Sabino Cassese, rilevando giustamente come «la politica attuale fa programmi che sono tutti al presente, senza prospettare un futuro. Elenca promesse, ma non ne indica tempi e costi; prospetta un’orgia di sgravi, bonus, superbonus, adeguamenti stipendiali senza chiedersi come e quando introdurli e guarda soltanto al quotidiano, spesso all’effimero».

Si tratta d’una politica, quella attuale, dell’irrealtà. Che ha il vizio di confondere il promettere con il fare. Ora, per riportarla dentro al reale, servirebbe una riscoperta seria e ragionata degli strumenti della programmazione, non intendendo la stessa come compilazione di più o meno lunghe liste della spesa, bensì come ordinamento razionale delle capacità di realizzare degli efficaci percorsi per la ripresa ed il progresso.

Ci si rifà, con questa affermazione, a quanto sostenuto da un autorevole Ministro del bilancio, Ugo La Malfa, che con la sua citatissima “Nota aggiuntiva” al documento contabile del 1961, dettò i principi per un’efficace azione di governo, indicando che per raggiungere costanza ed efficacia nello sviluppo, occorresse «predisporlo ed ordinarlo attraverso la programmazione degli interventi futuri, per meglio affrontare i fondamentali problemi del Paese». Per dirla in breve, La Malfa indicava, con lungimirante lucidità, che l’economia andava guidata dalla politica, in modo da facilitarne o da correggerne ritmi ed indirizzi, perché meglio rispondesse alle effettive necessità d’un Paese rimasto molto diseguale.

Quella lezione lamalfiana è purtroppo andata perduta, dimenticata o rimossa. E di programmazione, cioè di piani per il futuro, non si parla più, a Roma come a Cagliari. Accade infatti che a governare vengano chiamati, anziché i più competenti ed autorevoli, i record-men delle preferenze, con il loro obbligo prioritario di dover onorare, con favori e partigianerie, i debiti di riconoscenza contratti. I casi sono ormai sempre più numerosi, ed anche qui in Sardegna ne soffriamo gli effetti deleteri.

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