S pesso si lanciano allarmi per la mancanza, soprattutto in Sardegna, di medici di base e di pediatri di libera scelta. Oppure si denunciano attraverso i media inefficienze, tempi di attesa biblici per un esame o una visita specialistica ed emerge che troppi italiani rinunciano alle cure, se non indispensabili, per non affrontare spese difficilmente sostenibili. Eppure, proprio la recente pandemia da Coronavirus ci ha insegnato, tra le altre cose, quanto sia importante la cosiddetta “medicina territoriale”, costituita da quei professionisti della sanità che operano a diretto contato con la popolazione.

O ltre ai già citati medici di base e pediatri di famiglia, fanno parte della categoria le guardie mediche e tutto il tessuto di ambulatori specialistici pubblici presenti sul territorio. Una medicina, quella territoriale, fondamentale per monitorare lo stato di salute di una comunità e per fare prevenzione in maniera capillare.

Purtroppo, troppo spesso viene rilevato un generale malcontento per la qualità dell’assistenza sanitaria di base non più considerata punto di riferimento imprescindibile per le questioni di salute. Quest’ultimo dato, a nostro parere, è quello più grave, sintomo di un sistema sanitario in cui sono abbondanti gli sprechi, le inefficienze e anche le chiacchiere, ma è mancata la volontà di rafforzare l’assistenza medica sul territorio. Troppo poco, infatti, si è investito sul rapporto medico-paziente e così oggi ci ritroviamo con “medici della mutua” e pediatri sovraccarichi e ridotti spesso a meri passacarte, dediti a prescrivere frettolosamente medicinali e visite specialistiche. È insomma venuta meno quella relazione che consentiva al “dottore di famiglia” di garantire un monitoraggio capillare sulla salute della popolazione, evitando quel ricorso ad esami e specialisti che oggi manda in tilt gli ospedali, gli ambulatori e pesa tanto sulle tasche degli italiani.

Da questa questione cruciale è necessario ripartire se si vogliono cambiare le cose, restituendo alla medicina territoriale ruoli e funzioni antichi. E per farlo bisogna prima di tutto investire sui medici che operano sul territorio, aumentando le loro gratificazioni professionali – basta ridurli al ruolo di burocrati! -, e il loro numero in modo che possano dedicare a ogni paziente tempo e risorse adeguate. Inoltre, si dovrebbe puntare sulla creazione di veri e propri ambulatori gestiti da più medici in modo da garantire assistenza medica anche al di fuori dei tradizionali orari di visita. Ambulatori in cui ci siano, magari, le attrezzature per alcuni esami di base come l’elettrocardiogramma o alcune indagini sul sangue. In questo modo si alleggerirebbero i carichi di lavoro nelle strutture ospedalieri e si avrebbe un controllo più meticoloso sulle condizioni di salute della cittadinanza, con, alla lunga, meno costi e meno malati.

Un altro aspetto poi andrebbe tenuto in grande considerazione. Medici troppo carichi di lavoro sono forzatamente meno capaci di empatia e di dedicare la giusta attenzione umana al loro paziente. Ogni attività medica si riduce così a puro sapere tecnico, competenza, specializzazione e sembra non esserci più spazio per una “umanizzazione” della pratica medica che invece consenta di dare fiducia e migliorare la qualità della vita dell’ammalato, pur in presenza della malattia. Si potrebbe allora dire che la medicina necessiti una prospettiva nuova e antica allo stesso tempo, ma capace di riportare l’uomo e le relazioni umane al centro dell’attenzione sottraendo l’egemonia alla tecnica. Senza questo necessario mutamento il rischio è quello di avere una scienza medica sempre più progredita, capace di vincere sfide enormi ma incapace di far fronte alla solitudine, allo scoramento che quasi naturalmente accompagnano la malattia. Una scienza medica a cui ci aggrappiamo quando siamo nella disperazione, ma a cui non ricorriamo con fiducia per prevenire prima ancora che curare.

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