E siste un confine, una sottile linea di separazione che vede a stretto contatto da un lato la vita e dall’altro la morte. L’impegno di medici e infermieri in questa terra di frontiera è ovviamente quello di consentire alla vita di prevalere sulla morte. Vita e morte non sono concetti astratti, categorie del pensiero. Bisogna però aspettare il XX secolo perché prendessero piede, nella pratica clinica, i concetti di riabilitazione cardiopolmonare e gli strumenti necessari per essere praticata. Nel 1929 Philip Drinker dell’Harvard School of Public Health inventò il polmone d’acciaio.

E sso fu usato in larga scala durante un’epidemia di poliomielite all’inizio degli anni 50. Consisteva in un tubo d’acciaio chiuso ad una estremità, mentre dall’altra parte sporgeva la testa del paziente con un collare che impediva la fuoriuscita dell’aria. Insufflando aria nel cilindro e poi facendola defluire si mimavano le funzioni polmonari del paziente che per la poliomielite aveva perso la forza per respirare.

Da questo momento, per merito di Peter Safar, un anestesista austriaco, la ventilazione polmonare divenne la tecnica di base della Intensive Care. La conferma scientifica di questa tecnica avvenne di lì a poco in Danimarca. Nel 1952, nel giro di pochi mesi 2722 pazienti contrassero la polio e 316 di questi andarono incontro a paralisi respiratoria. Che fare? Bjørn Aage Ibsen creò a Copenhagen la prima unità di terapia intensiva. Si fece preparare dei tubi di gomma di idonea dimensione per essere posizionati attraverso la bocca e raggiungere il polmone. Poiché non esistevano ancora i respiratori automatici convinse duecento studenti di medicina affinché pompassero manualmente aria nei polmoni dei pazienti. In questo modo la mortalità si ridusse dal 90% al 25%. Ma dimostrò anche che si poteva eseguire efficacemente la respirazione bocca a bocca per salvare vite umane.

Ovviamente in questi ultimi 50 anni non è cambiata solo la terminologia, si parla di Terapia Intensiva, ma le nuove conoscenze hanno puntato ad individuare specificità all’interno del vasto campo della medicina d’urgenza. Esistono giustamente strutture complementari come la Terapia Intensiva cardiologica, nefrologica, pediatrica, post operatoria che devono operare a stretto contatto con modelli organizzativi condivisi. Un mondo, questo della Critical Care che, almeno nel nostro Paese, presenta però molte sfaccettature che si esprimono nella parcellizzazione e nella scarsa coordinazione. Di certo i modelli avanzati di Terapia intensiva, in generale, hanno migliorato la prognosi anche dei casi più complessi. Ulteriori miglioramenti si pensa verranno dalla precocità con la quale la diagnosi e le terapie verranno praticate prima del ricovero. Lo sa chi si occupa di trapianti d’organo che proprio per questi motivi ha visto ridursi il numero dei donatori. Ma c’è un aspetto non secondario. Lavorare in questi reparti è faticoso anche emotivamente, ma dare una nuova vita a chi era sull’orlo della morte è un’esperienza che dà un senso ad un lavoro così complesso, ma affascinante. Vedere un paziente che esce dal coma e apre gli occhi ripaga dalle fatiche.

Tuttavia stiamo assistendo ad una fuga di molti medici da questi reparti. Fra i neolaureati poi la scelta della specializzazione in Medicina d’urgenza resta all’ultimo posto. La pandemia di Covid ha determinato un carico, nelle terapie intensive di malati con insufficienza respiratoria. Il numero insufficienze di strutture intensive e semi intensive ha reso i medici un po’ impotenti ad affrontare questa pandemia. Abbiamo capito che servono più strutture e medici. Questa medicina di frontiera deve torna re ad essere una ambizione per i giovani medici.

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