I l copione è sempre simile, ma efficace. Il capo di una importante realtà imprenditoriale si traveste mostrandosi irriconoscibile ai suoi dipendenti, assume un nome fittizio e passa dall’altra parte per una settimana. Entra in stretto contatto con i lavoratori della sua azienda, prova tutte le mansioni, fa domande, indaga sul modo di operare dei singoli e anche sulla loro vita privata. Si mostra ingenuo e goffo nel lavoro per vedere come viene corretto e istruito, cerca persino di far cadere in errore i suoi interlocutori: uomini e donne, anziani da una vita in fabbrica, giovani di fresca assunzione, dal tecnico specializzato all’operaio dell’ultimo anello della catena.

Tutti vengono esaminati, studiati, interrogati con le curiosità più strane, ma nessuno si accorge che dietro quel travestimento con tanto di parrucca e trucco facciale, si nasconda il loro titolare. Così si costruisce il programma “Boss in incognito”, fortunato docu-reality in onda su Rai 2, giunto alla settima edizione dal 2014. Alla fine della puntata si tirano le somme della settimana: i dipendenti vengono convocati in direzione dal capo. Tutti si presentano un po’ preoccupati, si siedono ansiosi davanti alla scrivania. “Sai perché sei qui?”, domanda severo il boss.

I l boss inizia proprio con i rimproveri sul modo di lavorare, nessuno scampa ai rilievi, anche i più anziani ed esperti. Contro le procedure non ci si può giustificare, soprattutto quando il boss fa osservazioni sulla sicurezza o sul buon nome dell’azienda. E qui scene imbarazzanti, qualche volte drammatiche, quando l’operaio ammette un torto e di fronte all’errore è pronto al licenziamento. Poi il boss si svela: “non mi hai riconosciuto?” Dopo le critiche arrivano i complimenti e i ringraziamenti perché i dipendenti, nonostante qualche inevitabile pecca, si dimostrano professionali, attaccati al lavoro e all’azienda, riconoscenti perché lo stipendio assicurato consente loro una vita sì di sacrifici, ma garantita a fine mese. Il boss mette in evidenza tutto questo e quindi si sofferma sulle loro qualità umane, sulla responsabilità di questi italiani che affrontano le difficoltà della vita con coraggio e generosità. Storie di varia umanità, di sofferenze individuali e malattie superate con la forza della famiglia e grazie alla certezza dello stipendio. Infine il boss premia ciascuno con doni (si dice benefit) sostanziosi quanto simbolici: un viaggio mai fatto e sempre sognato, la rata di un mutuo, il contributo per il dentista, la borsa di studio per un figlio, etc.

“Boss in incognito” ha successo di audience, colpisce perché rappresenta come nessun altro programma la realtà alla quale ambisce ogni lavoratore. L’aspirazione a un’occupazione dignitosa, equamente retribuita, con orari e prestazioni umane, il rispetto del dipendente per ciò che fa, l’apprezzamento pubblico per le sue capacità e l’attaccamento all’azienda che - è vero - arricchisce il padrone, ma è garanzia del suo presente e del suo futuro. Siamo all’apoteosi del posto fisso, ma non quello parassitario e statale di Checco Zalone, quanto il lavoro di coloro che operano nelle fabbriche, nelle aziende e nei tanti settori imprenditoriali che hanno fatto dell’Italia la sesta o settima economia mondiale. Dal nord della Padania al sud della Puglia, il Paese che produce alla grande esiste e si ribella alla crisi economica della globalizzazione.

Il tema del giorno oggi è il lavoro. In tutti gli aspetti. Il reddito di cittadinanza fa discutere, non si trovano lavoratori per molti impieghi, stipendi bassi, precarietà, carriere bloccate, sottomansionamento, orari disumani. Il programma televisivo riassume in definitiva queste esigenze: l’uomo non può essere ridotto a un robot, se ben utilizzato e motivato il lavoratore italiano offre prestazioni di qualità, dimostra passione e fedeltà, disponibile al sacrificio per salvare l’azienda vista come una grande famiglia o una squadra. Questa è la verità che va oltre il reality, l’unica strada da percorrere per superare la crisi. Gli imprenditori veri e capaci lo sanno bene.

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