M i occupo di disturbi mentali in chi studia all’università, dei fattori che ne facilitano l’insorgenza, e delle loro conseguenze. Avendo lavorato su questo tema prima da studente in medicina e chirurgia all’Università di Cagliari, poi da ricercatore all’Erasmus “MC” di Rotterdam, ho letto con disappunto le parole del ministro Valditara sull’uso dell’umiliazione con fine educativo, che vanno contro ogni evidenza scientifica ma offrono l’occasione per discutere su questo tema.

Ricordo quando ad un esame un docente vomitò con rabbia ad un collega le parole: “Tu ucciderai le persone”. Una risposta sbagliata, per quanto sbagliata, non giustifica l’umiliazione o il terrorismo psicologico. Giustifica un voto basso, una bocciatura. Ma tutto questo può e deve esser fatto con rispetto. Insegnante significa “che insegna”, e chi insegna deve insegnare, non umiliare.

Alcuni docenti confondono la mancanza di preparazione ad un esame o perfino a lezione con l’autorizzazione alla derisione. Nei corsi di laurea sanitari capita che questi comportamenti siano giustificati dalle responsabilità della futura professione. Proprio in vista delle future responsabilità, chi studia deve acquisire la migliore preparazione possibile e chi insegna deve accompagnare e guidare questo percorso. Diversi studi sulle facoltà di medicina mostrano che l’utilizzo dell’umiliazione per insegnare, suggerito dal ministro, è pratica comune.

M ancanze di rispetto e terrorismo psicologico non solo non sono utili, ma generano distress psicologico che, a differenza dell’eustress (lo stress che ci aiuta a rendere di più), ha ripercussioni negative sulla performance e sulla salute. La scienza è chiarissima: essere sano è fondamentale per la performance. Inoltre, la paura dell’umiliazione riduce la collaborazione e la condivisione di dubbi e idee, utili per l’intera classe.

Chi insegna è una risorsa per chi studia ma spesso è percepito come una minaccia. La ricerca ci dice che accendere la passione di chi studia è una strategia migliore. Se ci piace fare qualcosa, la facciamo meglio. Facendo qualcosa che ci piace in un modo che ci piace, aumenta la motivazione e migliorano qualità di vita e salute, ingredienti fondamentali per portare avanti i nostri studi e il nostro lavoro nel modo migliore. L’Università è per antonomasia il centro dell’innovazione e della scienza, ma proprio dove dovrebbe sentirsi a casa, la scienza è spesso ignorata.

I vari “è il rischio del mestiere”, “bisogna saper reggere la pressione” o “è selezione naturale” sono discorsi tipici di chi non attribuisce alla salute mentale la stessa dignità di quella fisica. Nessuno si sognerebbe di fare questi discorsi per rischi professionali per la salute fisica. Peraltro, non è sempre possibile eliminare ogni “rischio del mestiere” ma è nostro compito rimuovere quelli che possiamo rimuovere e minimizzare gli altri. Le mancanze di rispetto rientrano tra questi.

Tutto il discorso vale ovviamente per ogni disciplina e livello accademico. Riguarda anche le tante persone che siedono poco sopra nella scala gerarchica, come quelle impegnate con scuole di specializzazione e contratti di ricerca. L’Università italiana ha una struttura gerarchica molto verticale. Il problema è che, oltre a ruolo e responsabilità, in base alla posizione gerarchica si gode di diversa dignità: chi sta in basso ha diritto a meno dignità di chi sta in alto. Si subisce e si deve subire da chi sta più alto e, nell’immediato o in seguito, si scarica su chi sta in basso, portando ad un mantenimento intergenerazionale di queste dinamiche. Sebbene ogni mancanza di rispetto vada condannata e perseguita, è più lecito aspettarsi maggiore professionalità da chi insegna che non da chi studia, e chi ha un ruolo istituzionale spesso fallisce nel rappresentare il modello di competenza e di professionalità che dovrebbe veicolare. Gli Atenei devono impegnarsi a promuovere il rispetto come valore fondante del sistema accademico per ogni livello e direzione e a garantire gli strumenti per la segnalazione di comportamenti incongrui, seguite da verifiche ed eventuali provvedimenti disciplinari congrui.

Centinaia di studi dipingono uno scenario d’emergenza circa la salute mentale di chi studia all’università. E se non basta un’ampia letteratura scientifica, c’è la cronaca dei tanti suicidi tentati e di quelli portati a termine. Quando un problema assume dimensioni simili, non si può attribuire la responsabilità all’individuo: il problema è del sistema.

Ricercatore, Dipartimento

di salute pubblica, Rotterdam

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