L a Corte di Cassazione ha finalmente accertato che non è mai esistita una trattativa Stato-mafia. Il primo a parlare di “trattativa” fu il falso collaboratore di giustizia Giovanni Brusca che, nel 1996, disse di “averne sentito parlare Totò Riina”. Su questo “sentito dire” si sono basati i pubblici ministeri di Palermo nel 2009, portando come unica prova la mancata proroga del “41 bis” da parte dell’allora ministro della giustizia Conso ad alcuni detenuti e dopo aver cercato riscontri nelle parole del calunniatore Massimo Ciancimino che parlava di un “papello”.

S u queste incerte basi la Procura di Palermo ha imbastito un maxiprocesso che si proponeva di riscrivere la storia dei tormentati anni ‘90 del nostro Paese. Ora la Corte di Cassazione riconosce che l’unica minaccia era quella mafiosa e non fu «veicolata» dagli ufficiali del ROS dei Carabinieri al Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria e da questo riferita all’allora Ministro della giustizia Giovanni Conso. Si riabilita così, anche se troppo tardi, la figura del professor Conso, oltre quella degli ufficiali del ROS dalla surreale accusa di aver convinto Totò Riina a proseguire sulla strada del ricatto al Governo a suon di bombe ed ora assolti con ampia formula per non aver commesso il fatto. Scrivono i giudici della sesta sezione penale che «la mera apertura di un’interlocuzione con i vertici di Cosa nostra non può ritenersi idonea di per sé a determinare l’organizzazione criminale a minacciare il governo, in quanto questo assunto, argomentato come autoevidente, non è fondato su alcuno specifico dato probatorio». Aggiunge la suprema Corte che dalla sentenza impugnata risulta che gli ufficiali del ROS «si sono limitati a ricevere la minaccia mafiosa, senza sollecitarla né rafforzare l’altrui intento criminoso».

Ma oltre ad aver demolito l’impianto accusatorio dei P.M., i giudici della Cassazione bacchettano anche i loro colleghi palermitani per l’inaccettabile metodo “storiografico” da loro seguito nella redazione delle sentenze spiegando che, «anche quando deve confrontarsi con complessi contesti fattuali di rilievo storico-politico, l’accertamento del processo penale resta limitato ai fatti oggetto dell’imputazione, e deve essere condotto nel rigoroso rispetto delle regole della Costituzione e del codice». I giudici di Palermo invece «conferendo di fatto preminenza a un approccio storiografico nell’interpretazione del dato probatorio, hanno finito per smarrire la centralità dell’imputazione nella trama del processo penale, profondendo sforzi imponenti nell’accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell’economia del giudizio», come risulta dalle oltre 5.000 pagine della sentenza di primo grado e dalle quasi 3.000 di quella d’appello: «una mole tale da offuscare le ragioni della decisione e rendere le linee argomentative di difficile identificazione e interpretazione».

E infatti, alla Corte di Cassazione, per demolirle, ne sono bastate novantacinque, in linea con i principi affermati dalle Sezioni Unite, che hanno da tempo predicato chiarezza e concisione, discutendo, «ove occorra anche diffusamente, solo i fatti rilevanti e le questioni problematiche, liberando la motivazione dalla congerie di dettagli insignificanti che spesso vi compaiono senza alcuna necessità».

E così, dopo quindici anni, si è finalmente accertato che quel “sentito dire” era solo una chiacchiera e che l’unica minaccia allo Stato era quella mafiosa e non degli ufficiali del ROS. Una lezione di diritto per i pubblici ministeri e i giudici palermitani e una sentenza che deve far riflettere tutti sul modo in cui la pubblica accusa de ve operare nel processo penale, senza cullare teoremi destinati a crollare in giudizio, con danni irreparabili per la vita e la carriera degli imputati, ingenti spese per lo Stato e, in definitiva, uno sfregio alla giustizia.

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