C 'è una rubrica telefonica della guerra? Mi sono posto la domanda qualche giorno fa, poi ne ho parlato in un dibattito di Confindustria in Puglia e ora eccomi qua a riprendere i fili telefonici che ho cercato di collegare. Ci sono riuscito? Certi numeri rispondono (alla Casa Bianca c’è sempre qualcuno), altri sono muti (ma in ascolto), altri potrebbero attivarsi presto. Una cosa è certa, il rumore è grande e l’unica cosa che si sente è il tuono dei cannoni.Il telefono rosso non c’è più, la linea d’emergenza tra Washington e Mosca, quella che ci ha salvati dal conflitto termonucleare durante la Guerra Fredda, è interrotta. Joe Biden e Vladimir Putin non si parlano, nemmeno i loro ministri degli Esteri Serghei Lavrov e Anthony Blinken, i contatti tra gli Stati Uniti e la Russia sono al minimo storico, un enorme pericolo. C’è ancora un dialogo tra i militari - per le operazioni di routine sui quadranti del mondo e qualche pensata improvvisa come il lancio del missile Sarmat di Mosca qualche giorno fa - ma l’ordine è quello di tacere. Parlano le armi, lo scontro non è più sul terreno dell'Ucraina, siamo in piena escalation e i centri di comando della guerra preventiva sono tutti in stato di allerta.

Russia e Stati Uniti hanno i missili nei silos pronti per ogni tipo di conflitto, convenzionale e nucleare. Questo è il momento in cui il vantaggio competitivo di una grande potenza si realizza con lo schieramento delle forze strategiche, il movimento silenzioso dei lanciatori invisibili - i sommergibili - il monitoraggio dei radar e dei satelliti.

I nsomma, la combinazione delle forze di aria, cielo, terra, mare e spazio. La differenza tra Stati Uniti e Russia e tutti gli altri è su questi fattori. La supremazia tecnologica americana in zona combat e quella balistica nel campo delle forze nucleari e tattiche dei russi. Il mestiere delle armi è il dominio di menti rapide che prendono decisioni letali. Durante un mio viaggio a Norfolk, nella più grande base navale del mondo della U.S. Navy, un alto ufficiale che mi mostrava come vengono simulate le operazioni di sbarco anfibio, mi disse: "Mario, ricorda, i marines sono uomini e donne di intelligenza superiore". Erano i tempi della guerra in Afghanistan e in Iraq, un doppio fronte aperto in due Paesi immensi che nessuna grande potenza poteva (e può) sostenere, il bollettino dei caduti ogni giorno era terribile. Ieri e oggi. Come tanti altri ragazzi che stanno combattendo in questo momento in Ucraina, da una parte e dall’altra. Il teatro della guerra sembra destinato ad allargarsi (ricordo quanto ha detto Serghei Karaganov, l’uomo che ha inventato la “dottrina Putin” in un’intervisa al New Statesman: «Ci sono dozzine di posti nel mondo dove potrebbe esserci un confronto diretto con gli Stati Uniti». Dozzine di posti. Di fronte all’escalation, la voce di chi chiede un negoziato per la pace è coperta dal tuono dei cannoni. Mi chiedo chi riattaccherà i fili del telefono rosso, serve più che mai quella linea della diplomazia, della ragione, riuscirono a farlo John Fitgerald Kennedy e Nikita Kruscev quando la crisi dei missili di Cuba (1962) sembrava sul punto di non ritorno. Questo massacro deve finire, ma dirlo è diventato quasi un’eresia.Mentre ragionavo sull'agenda telefonica delle grandi potenze, sui missili che piovono su Odessa, sull’invio di armi e un obiettivo che si sta pericolosamente spostando verso Mosca (non più la fine della guerra in Ucraina, ma un “indebolimento” della Russia, l’ha detto il segretario della Difesa americana, Lloyd Austin), sui rumors che raccontano di un annuncio il 9 maggio di una guerra totale di Putin, mentre tutto questo suonava come un rumore sinistro di campane (Spleen, Charles Baudelaire: “Furiose a un tratto esplodono campane / e un urlo tremendo lanciano verso il cielo”), ho incontrato ieri in Puglia, a Borgo Egnazia, Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, per un’intervista su questi tempi straordinari di guerra senza pace. Bonomi ricopre il suo ruolo nel periodo più difficile dal dopoguerra per il nostro sistema industriale: alla cronica instabilità dei governi, all’inconsapevolezza della classe politica, si è sommata la crisi pandemica (due anni di economia in lockdown, in continuo stop and go) e ora la guerra. Bonomi solleva una domanda che attende una risposta netta da parte del governo, del parlamento, dei partiti: l’industria è un tema di sicurezza nazionale? La risposta per lui è sì, senza alcun dubbio. Anche per me. Lo è perché l’Italia non può sopravvivere senza difendere i suoi imprenditori, costruire lo scudo e la lancia per andare a conquistare mercati (che si s tanno chiudendo, la globalizzazione sta rallentando) e far rifiorire nel nostro Paese le produzioni strategiche, non solo l’industria. Bisogna ricominciare dalla terra, dal suolo coltivato, dall’allevamento, dalla natura che ci ha dato così tanto e troppo le abbiamo tolto, con lo scempio ideologico di politiche immaginarie che pensavano a un futuro dove i mestieri che hanno fatto la nostra storia e cultura dovevano sparire. Là fuori c’è la guerra, io ricordo i racconti di mia nonna Desolina e ora penso una sola cosa: siamo tutti figli di pastori, agricoltori, pescatori, artigiani. La terra è quello che abbiamo, quello che siamo.

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